Era il 21 gennaio 1921, esattamente cento anni fa, in quel di Livorno si realizzava un autentico pezzo di storia. Che avrebbe caratterizzato l’Italia per il resto del Novecento, rendendola una sorta di anomalia in Europa (e nello specifico a Ovest del muro di Berlino). Quel giorno nacque infatti il primo Pci, all’epoca denominato Partito Comunista d’Italia. Ripercorrendone in breve la storia, nella consapevolezza che la forma giornalistica non permetterà di andare a fondo di uno dei fenomeni più complessi della nostra storia, proveremo a rispondere a una domanda. A distanza di cento anni, cosa significa essere comunisti? Ha ancora senso definirsi tali? E soprattutto, ne esistono realmente ancora? La risposta cercherà di abbracciare sia coloro che sentono di appartenere a tale ideologia, sia coloro che la osteggiano con tutte le loro forze.
Come e perché nacque il Pci in Italia
Nel 1921 fu Amadeo Bordiga a farsi portavoce delle istanze di dissenso all’interno del già avviatissimo Partito Socialista (nato nel 1892). Tali frange ritenevano che anche in Italia si sarebbero dovuti perseguire i principi della Rivoluzione d’ottobre. In altre parole: il popolo mai avrebbe potuto avere potere politico in presenza del capitalismo nella società. Sarebbe dunque servita l’azione rivoluzionaria, rigettata dal Psi. E invece ben presente nel quadro ideologico dei comunisti, tanto più che l’Italia dell’epoca era una terra tutt’altro che serena.
La dolorosa conclusione della Prima Guerra Mondiale aveva generato profondissime tensioni sociali in Italia, oltre che uno spaccamento senza precedenti nella popolazione. Il Paese era più povero, i disoccupati erano aumentati, nelle fabbriche e nei campi abbondavano gli scioperi. Tanto che le ipotesi di possibili rivoluzioni avevano prestato il gomito alle paure dei “padroni”, industriali e agrari. Con conseguente crescita del movimento fascista. Visto per anni come una possibile soluzione al “pericolo dei comunisti”.
Comunisti e fascisti in Italia: due storie non paragonabili
I due movimenti ben presto intrapresero direzioni opposte, non solo ideologicamente. Se ancora oggi una certa narrazione tende a mettere comunisti e fascisti sullo stesso piano, la storia d’Italia racconta qualcosa di profondamente diverso. Almeno per quanto riguarda il nostro suolo nazionale. Il Pci voluto e riformato da Palmiro Togliatti nel 1944 aveva infatti operato il primo radicale taglio rispetto alla tradizione. Un partito interclassista, non aperto solo ai proletari ma all’intera cittadinanza. Ma, soprattutto, i comunisti ebbero un ruolo fondamentale nella Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. Tanto da essere la terza forza per rappresentanza all’Assemblea Costituente.
Se infatti il 35% tra coloro che contribuirono alla stesura della nostra Costituzione provenivano dalla Democrazia Cristiana e il 20% era socialista, i comunisti sfiorarono il 19% dei componenti dell’assemblea. Poco meno del 7% proveniva invece dal Partito Liberale, circa il 4,5% dal Partito Repubblicano. E in qualche modo tornano alla mente le fresche parole di Giuseppe Conte, che sia alla Camera che il Senato ha fatto appello in questi giorni alle “migliori tradizioni europeiste“. “Liberali, popolari, socialisti“, ha elencato. Inevitabilmente, ne mancava una.
L’internazionalismo e i rapporti con l’Unione Sovietica
Per quanto il Pci si sia sempre professato “internazionalista“, infatti, quell’antica ispirazione rivoluzionaria con tanto di richiamo alla lotta armata non poteva essere preso sotto gamba. Così come i legami con l’Urss mai realmente recisi dai vertici comunisti nostrani, sebbene le critiche interne e relative a ciò che avveniva oltre la Cortina di Ferro non siano mai mancate. In particolare negli anni di Enrico Berlinguer, le critiche dei vertici all’universo sovietico si fecero più intense. Con frange interne al Partito che, però, le respinsero con sdegno. La sinistra italiana aveva già iniziato le prime scissioni.
Quel Partito Comunista Italiano ha smesso di esistere nel 1991, quando Achille Occhetto dichiarò ufficialmente conclusa tale esperienza dando vita al Pds, il Partito Democratico della Sinistra. Erano gli effetti della caduta del Muro di Berlino, che già a distanza di tre giorni (il 12 novembre 1989) aveva indotto l’ultimo segretario del Pci a una presa di posizione senza precedenti.
Da Pci a Pds: non più comunisti
Fu il giorno in cui il principale partito della sinistra italiana decise di rinunciare, quanto prima, a un esplicito riferimento ai comunisti. Apparve peraltro quel “democratico” presente ancora oggi. E che da un lato inserisce la forza politica nel solco della tradizione riformista e socialdemocratica (altro che rivoluzioni armate!), dall’altro indirettamente richiama alle forze progressiste di una tradizione quasi più americana che non europea. Una scelta dovuta probabilmente al percorso altrettanto tortuoso intrapreso dal Partito Socialista Italiano, in particolare a partire dagli anni di Bettino Craxi.
Da allora sono passati altri trent’anni, e rispetto alla nascita del “primo”, vero Pci fanno cento. Eppure anche oggi in Italia si parla di comunisti. Lo fanno, definendo se stessi, diversi piccoli partiti della sinistra extraparlamentare. Da sottolineare il fatto che, a differenza di chi li hanno preceduti, tali partiti sono fondamentalmente euroscettici e fortemente critici verso la stessa Ue. Dimostrando di essere, a tutti gli effetti, qualcosa di profondamente diverso rispetto al Pci (soprattutto del dopoguerra).
Comunisti nel 2021: si può ancora dire, in Italia?
E oggi? Cosa è rimasto di quell’ideologia, ormai divenuta un vero e proprio insulto, valido peraltro per tutte le stagioni e rivolta a mille correnti di pensiero diverse (avete presente quelli “col Rolex“)? E ancora: è giustificabile il terrore dei “comunisti”, spesso presentato dalle forze contemporanee della destra italiana e in certi casi anche dal centro-destra? Di fatto, è completamente privo di fondamento. I partiti nati da quella tradizione (a partire dal Pd), hanno ormai pochissimi punti in comune con le ideologie portate da Amadeo Bordiga in quella fatidica giornata livornese di cento anni fa. A partire, come detto, da quel riformismo che addirittura fu la base stessa della scissione del primissimo Pci dai Socialisti del 1921. E che, probabilmente, sarebbero la reale collocazione geopolitica del Pd odierno se ancora esistessero. In un’evoluzione che lo rende quasi l’esatto opposto di una forza potenzialmente eversiva e – paradossalmente – antidemocratica (per un Partito che addirittura è Democratico sin dal proprio nome).
Un’evoluzione perfettamente riassunta dalla storia politica di Emanuele Macaluso, recentemente scomparso e passato appunto dalle file dei comunisti che combatterono durante la Resistenza fino al Pds social-democratico di Occhetto. E che, come ultimo atto politico, disse di Giuseppe Conte e dell’attuale situazione italiana: “Questo governo non è all’altezza, ma non ha alternative“.