“Presidente, è inevitabile parlare…”. “No, è evitabile invece. Comunque parliamone pure”. Sceglie l’arma dell’ironia il presidente del Consiglio, Mario Draghi, per intervenire su una delicata questione che, dopo i fatti di Roma di sabato, sta animando il dibattito politico italiano. Vale a dire l’ipotesi dello scioglimento di Forza Nuova.
La questione, ha spiegato Draghi in conferenza stampa al termine del G20 sull’Afghanistan, “è all’attenzione nostra, ma anche a quella dei magistrati che stanno continuando le indagini e formalizzando le loro conclusioni. Ora a questo punto noi stiamo riflettendo”. Lo scioglimento di un’organizzazione fascista, infatti, prevede un iter specifico.
Ma facciamo un passo indietro. Innanzitutto è bene chiarire qual è il perimetro costituzionale entro il quale l’esecutivo si può muovere per sciogliere Forza Nuova. Una specifica sezione della Costituzione italiana, la XII disposizione transitoria, vieta infatti la riorganizzazione – sotto qualsiasi forma – del disciolto partito fascista. A completare il quadro normativo troviamo anche due leggi.
La prima è la legge Scelba del 1952, voluta dall’allora Governo De Gasperi VII in un periodo di grandi tensioni sociali. Quell’atto serviva proprio per dare attuazione alla XII disposizione della carta costituzionale della Repubblica e subisce una modifica nel 1975. Senza spingersi alle recenti norme che puniscono il reato di apologia del fascismo, il quadro si è infine completato nel 1993 con la legge Mancino.
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Il testo di riferimento resta però quello della legge Scelba, che negli anni ’50 ha superato più volte il vaglio della Corte Costituzionale. Anche se restano fermi i capisaldi della libertà di pensiero, che – come chiarisce una sentenza della Consulta del 1958 – limitano l’applicabilità della norma solo nel caso in cui sia “concreto” il pericolo che si perseguano “finalità antidemocratiche proprie del partito fascista”.
L’articolo 3 di questa legge disciplina invece lo scioglimento dei gruppi d’ispirazione fascista. E delinea due strade da percorrere: o una sentenza della magistratura o un decreto legge, ma solo in casi straordinari di necessità e urgenza. Nel primo caso è il Ministero dell’Interno (sentito il parere del Consiglio dei ministri) a ordinare lo scioglimento e la conseguente confisca dei beni.
Finora nel nostro Paese si è proceduto allo scioglimento di movimenti fascisti solo a seguito di sentenze giudiziarie. Il primo caso è quello di Ordine Nuovo, movimento di estrema destra nato nel 1969 e sciolto nel novembre del ’73. L’allora titolare del Viminale, Paolo Emilio Taviani (Governo Rumor IV), intervenne al termine di un processo terminato con pesanti condanne per i dirigenti del movimento.
E che costò la vita la giudice Vittorio Occorso, morto il 10 luglio ’76 a Roma in un agguato rivendicato da Ordine Nuovo. Sempre al 1976 risale anche il discioglimento formale dell’organizzazione neofascista Avanguardia Nazionale, nata nel 1960. In quel caso, però, i dirigenti del movimento anticiparono la decisione del Viminale sciogliendo AN il 7 giugno ’76, il giorno prima di essere posto fuori legge.
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