Sport, le donne transgender sono avvantaggiate? Gli studi sono discordanti

Nel corso di un’intervista al Corriere della Sera, la campionessa di sci Sofia Goggia si è detta contraria alla possibilità che un’atleta transgender gareggi assieme alle donne. “A livello di sport, un uomo che si trasforma in donna ha caratteristiche fisiche, anche a livello ormonale, che consentono di spingere di più. Non credo che sia giusto”, ha affermato. Questa dichiarazione ha contribuito a riaccendere l’annoso dibattito sui vantaggi (presunti o effettivi) che le atlete transgender avrebbero nelle competizioni sportive femminili.

Nelle ultime settimane la questione era tornata al centro dell’attenzione in seguito alla vittoria della nuotatrice Lia Thomas nelle 500 yard stile libero del campionato Ncaa statunitense. Si tratta della prima volta in cui un’atleta transgender ottiene il primo posto in questa competizione e non tutti hanno accolto la novità a braccia aperte. Per quanto le opinioni degli altri sportivi possano avere un certo peso, l’unico modo per capire davvero la situazione è rivolgersi alla scienza e vedere quali sono stati i risultati degli studi sul tema condotti finora.

Quali sono i requisiti che le atlete transgender devono soddisfare?

Innanzitutto è importante sottolineare che esistono alcune regole precise che le atlete transessuali devono rispettare per poter competere negli sport femminili. Per esempio, in molti casi il livello di testosterone nell’organismo dev’essere inferiore a una certa soglia.

Una rappresentazione chimica del testosterone
Foto WikiCommons | Pubblico dominio

La Federazione mondiale di atletica l’ha fissata a 5 nanomoli per litro, ma in altre realtà è diverso. Ci sono però delle eccezioni. La già menzionata Ncaa, per esempio, non prevede un limite di testosterone e permette di gareggiare alle atlete transgender che hanno completato almeno un anno di terapia ormonale. Inoltre, lo scorso novembre il Comitato Olimpico Internazionale (Cio) ha aggiornato le proprie linee guida sulla partecipazione di atleti e atlete transgender alle Olimpiadi e alle competizioni sportive in generale, rimuovendo la necessità di svolgere l’analisi dei livelli di testosterone. Le nuove indicazioni non sono vincolanti per le federazioni, tuttavia rappresentano uno standard a cui sarebbe opportuno adeguarsi.

Gli studi condotti finora

In generale, il numero degli atleti e delle atlete transgender non è elevatissimo e ciò si riflette anche sulla quantità di studi sul tema che sono stati condotti finora. Secondo quanto riferito dall’National Health Service (Nhs), la terapia ormonale è “limitata da fattori che sono unici per ogni individuo, tra cui quelli genetici”. Un risultato simile è emerso anche da uno studio di 18 mesi condotto da Sport England, Sport Scotland, Sport Northern Ireland, Sport Wales e UK Sport. I ricercatori coinvolti hanno sottolineato che “difficilmente la soppressione del testosterone è sufficiente a garantire equità tra le atlete transgender e le donne biologiche negli sport in cui il sesso ha un peso”. Dal report è anche emerso che nella maggior parte dei casi “esistono delle significative differenze in termini di forza, resistenza e struttura corporea tra un’atleta transgender e una donna”.

Una differenza non poi così marcata?

Non tutti gli studi hanno però portato ai medesimi risultati. Joanna Harper, atleta transgender e ricercatrice della Loughborough University, ha condotto due studi sull’impatto della transizione di genere tra gli sportivi. “I dati che ho visionato indicano che il calo del testosterone porta a una significativa riduzione delle performance sportive. Credo che nella maggior parte degli sport ciò potrebbe garantire una competizione abbastanza equa, pur non eliminando del tutto alcuni vantaggi delle atlete transgender”. Dagli studi di Harper emerge anche che la terapia ormonale riduce i livelli di emoglobina nel corpo, rendendoli pressoché uguali a quelli delle donne biologiche.

Lo studio sui militari transgender

Nel 2020 è stato condotto un altro studio, focalizzato sulle persone che hanno cambiato sesso durante la permanenza dell’esercito degli Stati Uniti. Dalla ricerca, pubblicata sul British Journal of Sports Medicine, è emerso che le donne transessuali mantengono un certo vantaggio atletico anche dopo essersi sottoposte alla terapia ormonale per un anno. Dopo due anni questo divario diventa meno ampio, senza però azzerarsi. È emerso, per esempio, che le donne transessuali sono più veloci del 12% nella corsa rispetto alle donne biologiche. Questo vantaggio non è però sufficiente a competere a livello agonistico con le atlete professioniste. Secondo l’autore dello studio, il dottor Timothy Roberts, per competere ad alti livelli un’atleta transessuale dovrebbe essere più veloce del 29% nella corsa rispetto a una donna nella media. Per essere una runner d’elite, questa percentuale dev’essere portata al 59%.

Cosa cambia da uno sport all’altro?

I vantaggi delle atlete transgender possono variare molto da uno sport all’altro. Parlando con la BBC, lo scienziato dello sport Ross Tucker ha spiegato che le differenze fisiologiche tra i due sessi che emergono durante la pubertà non possono essere ignorate. Gli uomini tendono ad avere un cuore e polmoni di dimensioni maggiori, una minor percentuale di massa grassa e una conformazione diversa dello scheletro. Queste caratteristiche giocano un ruolo importante anche in seguito alla transizione di genere e offrono un vantaggio del 10-12% in sport come il nuoto e il ciclismo.

Negli sport che interessano i muscoli della parte superiore del corpo la differenza è ancora più marcata. Per esempio, le donne transgender che praticano sollevamento pesi hanno un vantaggio del 30-40% rispetto alle altre atlete.

Pesi
Foto Pixabay | Pexels

Come si può notare, la questione è tutt’altro che semplice. Se alcuni studi sembrano indicare delle differenze poco rilevanti nei risultati ottenibili a livello agonistico, da altri emerge un vantaggio tutt’altro che trascurabile. Per arrivare ad avere un quadro più preciso della situazione potrebbe essere necessario attendere i risultati di ricerche condotte su un campione più ampio.

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