Non è solo un capriccio, non è un colpo di testa da parte dei rappresentanti di un mondo dall’abusata fama di essere popolato da creature viziate e talvolta addirittura viziose. Probabilmente in questi giorni vi è capitato di leggere le notizie riguardanti il calcio italiano, il destino della Serie A, si riprende a giocare a pallone o no. Probabilmente vi siete domandati: “Ma com’è possibile che questi, con l’emergenza Coronavirus, stiano ancora qui a pensare agli stadi e alla palla?“. Ebbene: se lo avete fatto i superficiali non sono loro, ma siete voi. E le ragioni non sono sociali, ma economiche.
“Non posso prendere in considerazione l’ipotesi di chiudere la stagione. È una scelta che comporterebbe responsabilità in capo al sottoscritto di una gravità inaudita. Non posso essere il becchino del calcio italiano“, parole di Gabriele Gravina, presidente della Figc, ospite di Fabio Fazio a ‘Che tempo che fa’. Il motivo è presto detto: l’emergenza Coronavirus ha fermato non solo uno sport, ma un’industria. Un industria che solo sul suolo italiano genera un volume d’affari di quasi 5 miliardi di euro.
Questi i dati messi a referto dai bilanci del Coni e della stessa Figc a fine 2019. Dati che ci permettono di capire che il calcio garantisce da solo addirittura cifre vicine al 2% del Pil del Paese, e che il 12% dell’intero Pil del mondo del calcio proviene dall’Italia. A parlare di 2% è stato Giovanni Malagò, presidente del Comitato Olimpico Nazionale (il famoso Coni), che ha fotografato un business che l’emergenza Coronavirus non può fermare.
Il tanto bistrattato calcio italiano, pur costellato di figure dirigenziali non sempre chiarissime e con il problema degli stadi che si trascina da decenni, produce una fetta di economia ben più consistente di quanto si penserebbe. Non solo: rappresenta un motivo di investimenti dall’estero tutt’altro che trascurabile. Il trend dimostra che nel 2018 la crescita rispetto al 2017 era stata del +6%, che diventa addirittura un +24% se torniamo al 2016.
Lo stesso Stato italiano, messo in enorme difficoltà dall’emergenza Coronavirus, ricava una notevole liquidità dal mondo del pallone. Tra contributi fiscali e previdenziali, nell’ultimo decennio sono entrati nelle casse del Paese oltre 11 miliardi di euro, mentre le spese si aggirano intorno ai 749 milioni (si tratta dei versamenti che il Coni ha erogato alla Figc). Soltanto l’anno fiscale 2016 ha fatto registrare 1,2 miliardi di contributi. Una cifra che equivale al 70% di tutto lo sport e addirittura un terzo se ampliamo il campo al settore che comprende “attività artistiche, sportive e di intrattenimento“.
Non vanno dimenticate le scommesse, inevitabilmente ferme in epoca di Coronavirus a causa dello stop delle attività. Nel 2018 sono stati raccolti 9,1 miliardi di euro, di cui 211 milioni si sono trasformati in gettito erariale. Infine ci sono l’impatto socio-economico e il valore generato: tramite il SROI (Social Return on Investment Model), Figc e Uefa lo hanno calcolato in più di tre miliardi. Il calcio in Italia dà lavoro a 98mila persone, di cui 18mila nel solo settore edilizio: il contributo economico diretto al Paese supera i 742 milioni di euro.
Ecco perché trovare una quadra nel mondo del calcio non è un capriccio. E puntare a farlo ripartire non è un vezzo da popolino. “Generalizzare tutto nel mondo dello sport non è possibile. Ma il fatto che tutti gli sport abbiano già preso decisioni diverse dal calcio non è un caso“, ha evidenziato non più indietro di qualche ora fa Malagò. Ed è inevitabilmente così, nonostante il Coronavirus.
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