“Si yo fuera Maradona, viviria come el”. Se io fossi Maradona, vivrei come lui, gridava a pennate di chitarra Manu Chao nel sublime film Maradona by Kusturica. Un condizionale attualissimo, all’indomani della scomparsa del personaggio che più di tutti ha saputo elevarsi a semi-divinità nel particolare cosmo pallonaro. Difficile dire se Maradona sia stato o meno il calciatore più forte di sempre: forse sì, forse no. Da Di Stefano e Pelé arrivando a Messi e Cristiano Ronaldo, la storia del calcio è costellata di stelle di prima grandezza. Di certo “Dieguito” è stato il più iconico, e il centrifugato di sensazioni scatenatesi nelle ultime 48 ore ce lo conferma. Tutti, ma proprio tutti, sanno chi è Diego Armando Maradona. In ogni angolo del globo terracqueo. Con ogni probabilità, solo Mohammed Alì e Micheal Jordan sono icone planetarie dello sport equiparabili a lui.
Maradona: un personaggio di cui non si potrà mai scindere la doppia personalità
Maradona però non è una figura che si può “scremare”. Non si può scartare l’uomo e tenersi l’artista della pelota, come troppe “verginelle” stanno cercando di fare. Con maldestri tentativi imbevuti di moralismo un tanto al chilo, oltretutto. Per questo i versi latini strimpellati da Manu Chao calzano a pennello.
Maradona era un “drogato”, come tanti baciapile lo bollano in maniera sprezzante. Non ne ha mai fatto mistero, al contrario di tanti altri personaggi pubblici. Era votato all’autodistruzione. Con le donne era tutt’altro che avvezzo alla monogamia e al rispetto (anche qui, è in abbondante compagnia tra i volti noti, molti dei quali però danno meno dell’occhio): la sua villetta a Posillipo, negli anni napoletani, aveva le porte girevoli per il gentil sesso. Ha sparso figli qua e là, riconoscendone alcuni con grave ritardo. Ha fatto impicci col fisco. Si è lasciato pericolosamente avvicinare, a Napoli, dai camorristi del clan Giuliano. Aveva le mani bucate (spesso anche per raptus di generosità). Tutte cose note: era geneticamente portato all’eccesso.
Maradona è morto tre o quattro volte già prima del definitivo annuncio del Clarin dell’altroieri. Allampanato e sfatto, pingue e imbolsito, sciatto come nel recente orripilante balletto che lo riprendeva in ciabatte e in stato psico-fisico pietoso, è riuscito spesso a risorgere più volte sui letti d’ospedale. Non è mai stato un aspirante chierichetto, né un modello per i più giovani, né un vademecum vivente su come essere brave persone. Non ha mai voluto esserlo.
Perché non sarebbe giusto celebrare Maradona?
Quindi perché cotanta bigotta filippica? Perché sono così tanti i prelati senza tonaca del giorno dopo, che bollano come gratuita l’enfasi con la quale lo si ricorda, imbecilli le lacrime con cui lo si piange, sconsiderata l’epica con cui si narrano le sue gesta? Perché “El Pibe de oro” non è degno di essere celebrato con tutta la sua classe cristallina da calciatore, i suoi travagli interiori e la sua perenne e mai nascosta suburra esteriore di uomo?
Se nell’omaggiare dei personaggi pubblici si vuole usare questo metro, allora dovremmo non celebrare gente come Jim Morrison e Kurt Cobain nella musica, Caravaggio o Van Gogh nell’arte, Baudelaire e Pasolini nella letteratura. Rimanendo in campo sportivo, non dovremmo mai più parlare di Marco Pantani, di Dennis Rodman, di Paul Gascoigne, di George Best (morto anch’egli il 25 novembre). Eppure ne parliamo. E con trasporto.
Un continuo sali e scendi: nel calcio così come nella vita
Maradona è nato nella polvere. E dopo aver regalato emozioni a frotte, ci è più volte ritornato. Maradona è stato l’uomo che riuscito a inventare il gol più bello della storia nella stessa partita in cui si è macchiato di una delle più grandi zingarate mai viste su un rettangolo verde, quella “mano de dios” del quarto di finale scolpito nella pietra tra Argentina e Inghilterra di Messico ’86.
È stato quello che imbastiva festini a nella sua villetta di via Scipione Scapece, poi il giorno seguente organizzava un’amichevole su un campaccio ridotto a maxi-troscia di Acerra, solo per raccogliere fondi per un bimbo malato. Maradona è stato la diavolina che ha acceso il fuoco dell’amore di una città come Napoli, creando con la sua gente una simbiosi perfetta. Un’overdose di entusiasmo che negli ultimi anni però ha finito quasi per schiacciarlo, facendogli imboccare la strada verso il burrone nel quale avrebbe iniziato a scendere negli anni ’90.
Maradona ha vissuto continuamente su e giù tra abisso e iperuranio. Palleggiando con un’arancia. E regalando bellezza, baldanza e letizia, anche a chi non ne meritava. Non si può usare quel fastidioso e ributtante distinguo che in queste ore sentiamo in loop – “eh però era un cocainomane” – per far sembrare inopportuna la commozione ad ogni latitudine. “El Diez” va preso per intero. Col suo buio e con la sua luce. Perché come recita la canzoncina, faceva battere il coràzon. E solo questo conta.