Grazie Zerocalcare: il romanesco ci mancava, e con lui la romanità

Assisto con fastidio e riluttanza al can-can campanilistico in cui il mainstream sta rovistando, nella consueta smania di smontare in mille pezzettini la fiction di turno che sui social trova la sua consacrazione, frutto di hype ed engagement, come dicono quelli bravi, di viralità, per dirla in un gergo italianizzato.
Tutto ciò nella spasmodica speranza di dare un nonsoché di notiziabilità a questo o quel tema che, come per magia – ma magia non è – offre l’assist per riempire di titoli gli stessi social network e i siti più o meno attendibili.

Zerocalcare e il romanesco: il problema è l’ “accollo”?

Crea stupore il fatto che, questa volta, sia proprio il gergo a generare critiche e diatribe: nella fattispecie, un romanesco a detta di alcuni eccessivamente spiccato, ai limiti dell’umana comprensione.
A parte che mi viene da chiedervi dove eravate durante i lockdown, quando ai video di Michele Rech io personalmente mi ci aggrappavo… Dovremmo quindi pensare che il valore di una serie come Strappare lungo i bordi, firmata da Zerocalcare per Netflix, debba dipendere dal solo sentir pronunciare “accollo” una volta di più, dall’incorrere in un “Me batteva i pezzi”, piuttosto che dal chiedersi il significato di “ciancica” o “fracica”?

Curioso. Non foss’altro perché proprio in questi giorni Sky – non proprio Telepaperino – stia rispondendo a suon di anteprime e spot con la “quinta e ultima” stagione di Gomorra, non esattamente il vocabolario della Treccani fatto sceneggiatura eppure atteso con pathos e impazienza dai più.
Sarà che pistole e mazzate tirino ancora più di fumetti e ironiche introspezioni? Chissà.
Non è comunque sul dialetto né sul genere di fiction che il mio pensiero si sofferma.

Oggi mi viene, invece, da pensare che ben venga quella romanità tornata alla ribalta nazionale.
Dell’eterno Verdone – che pure ci riprova – e dell’evergreen Totti, riciclato al bisogno, sì, ma a rischio effetto boomerang per Roma e i romani, ne avevamo anche abbastanza.

Facciamo i conti con il nostro Armadillo

Riemergendo dallo spaccato di vita che Zerocalcare ci offre – nella sua intrinseca contraddizione, nelle sue paure e nella genesi delle stesse, per non parlare poi dei dialoghi con l’Armadillo, ossia la sua coscienza interiore – la prima cosa che mi viene in mente è il bisogno di avere quella stessa identica spontaneità, quella solidarietà precaria ma tangibile, anche attorno a noi. Tutti i giorni.
Peccato che non la si trovi, peccato non esista più.

Stiamo, infatti, ancora una volta cedendo alla tentazione di separarci, di metterci sul capo l’etichetta del giusto e dello sbagliato, stiamo salendo sul piedistallo del giudizio gettando discredito sull’altro, come spesso accade, accapigliandoci su motivazioni puerili. Ci mancava il romanesco.

 

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E allora sapete che vi dico?

Che ci mancava, sì, Zerocalcare. Ci mancava quella romanità d’impatto, diretta, con pochi fronzoli e con tanto istinto. Quella che non te le manda a dire, che non ha la puzza sotto il naso, quella che ti fa strabuzzare (non è romanesco, è italiano, nda) gli occhi per la totale assenza di preamboli – e quindi di ipocrisie preparatorie – anche a costo di sembrare veeemente, sin troppo.

Ci manca, dio quanto ci manca, quel modo un po’ ciondolante di affrontare la vita, con una guancia ancora sul cuscino e l’altra a prendere gli schiaffi che lei stessa sembra non voler smettere di darci, così tronfi di una saccenza… autorizzataci da chi?! Incapaci di trovare risposte al nostro essere se non su google, possibilmente da fonti di informazione faziose che strizzano l’occhio al nostro pensiero originario, convincendoci di essere portatori sani di verità, purchè non vi sia contraddittorio.

Ci manca l’amicizia. Da quella forse spenta ma sempre presente di Secco, a quella crudelmente limpida di Sarah, presi come siamo a gettare nel calderone dei miti o degli sbagliati anche quei rapporti che siamo oramai incapaci di tutelare, impegnati a trovare la frase ad effetto e la lezione di vita a scapito di un abbraccio o un sano schiaffo.

Ci manca il legame con la nostra terra, rappresentata dalla Rebibbia della serie, ma che per tanti romani è tutta la Capitale, affascinante e maledetta ma pur sempre la città più bella del mondo.
Siamo sempre pronti a indugiare un minuto di più davanti al pc, a tuffarci negli smartphone mentre passeggiamo, a mostrare al capo che il nostro valore si forgia su una mail o una call in più degli altri, weekend o festività che siano. E ciò che ci circonda? Esiste ancora? Probabilmente non ai nostri occhi.
La leggenda dei “cervelli in fuga” è da ridefinire, togliendola ai giovani diretti all’estero e lasciandola al senso letterale: i cervelli si spengono, e non importa più dove le nostre gambe ci portano, o peggio, a quali strade e vicoli appartengano.

Zerocalcare e quella normalità ritrovata

Zerocalcare, al di là della storia – ben scritta – e dell’arte creativa – da applausi – ci ricongiunge a una normalità oramai dimenticata. Quella di cui tutti si riempiono la bocca, in era pandemica ancor di più, ma che nessuno ricorda più come tratteggiare.

E allora, è proprio a quel tratteggio, a quello strappo lungo i bordi in salsa romanesca che, da milanese nato e cresciuto “sotto la Madonnina”, mi aggrappo e faccio ammenda.

Che poi, diciamoci la verità, l’imbruttito ha pure stancato.
E se per tornare un po’ a vivercela, ‘sta vita, servirà imparare un po’ di romanesco… e vabbè… ‘sti cazzi.

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