I medici di famiglia sono sempre più difficili tra trovare, tanto che in vent’anni se ne contano 10mila in meno, costringendo gli italiani a diverse peripezie per averne uno.
Durante la pandemia sono stati travolti e sono emersi i limiti dei loro studi: troppo isolati rispetto agli ospedali, ed ecco perché la riforma dei medici di famiglia non è più procrastinabile, come chiede anche l’Europa in vista del decollo della nuova Sanità territoriale su cui il PNRR investe 7 miliardi.
Il Governo ci sta riflettendo e sul tavolo ci sono due strade che potrebbero essere percorse: assumere i giovani generalisti nelle nuove Case di comunità oppure potenziare gli studi con apparecchiature e strumentazioni per consentire ai medici di famiglia di prescrivere anche i ricoveri, riducendo l’affollamento al pronto soccorso.
La carenza è sempre più pesante
La carenza dei medici di famiglia continuerà almeno fino al 2025 quando – secondo le stime dell’Agenas – ce ne saranno a disposizione degli italiani soltando 36628mila. Questi numeri spiegano le difficoltà di tanti italiani a trovare il proprio dottore di fiducia che, spesso, si vede costretto all’overbooking e quindi a superare quel massimale di 1500 assistiti fissato dai tetti.
Si tratta di una vera e propria desertificazione cominciata da tempo e che si è acuita in questi ultimi anni a causa del maxi esodo dei medici che vanno in pensione in massa con ricambi non sufficienti a riempire i buchi lasciati da chi è uscito.
Le nuove leve potranno sfruttare le 900 borse in più all’anno approvate dal precedente Governo con i fondi del PNRR, che si sommano ai finanziamenti ordinari: fino al 2025 le borse totali arriveranno a 2779.
La Sanità territoriale e i medici di famiglia come alternativa al pronto soccorso
Nel PNRR si stanziano oltre 15 miliardi per la Sanità, di cui circa la metà per il territorio e in particolare 3 miliardi per costruire, entro il 2026, oltre 1350 Case di comunità (maxi ambulatorio sul territorio per prime cure e diagnosi, affinché si possa arginare il sovraffollamento dei pronto soccorso) e circa 400 Ospedali di comunità, strutture dove ricoverare pazienti cronici che non hanno bisogno delle cure ad alta intensità di un ospedale normale.
Tra i nodi principali emersi subito c’è quello del personale da far lavorare dentro le nuove strutture: oltre a qualche specialista e agli infermieri – anche loro difficilissimi da trovare – l’idea è far lavorare anche i medici di famiglia nelle Case di comunità.
Il precedente Governo Draghi aveva pensato di vincolarli un certo numero di ore da lavorare nelle nuove strutture, ma il progetto è naufragato con la caduta dell’Esecutivo.
Ora l’idea a cui lavora il ministero della Salute è consentire ai giovani generalisti appena specializzati di essere assunti come dipendenti mentre chi vuole resterà in convenzione – il rapporto è di libera professione – sia lavorando nei nuovi spazi delle Case di comunità che restando nei propri studi come accade oggi.
Un’ulteriore strada è quella di provare a far diventare i medici di famiglia un importante snodo per i Pronto soccorso e arrivare a prevedere un percorso accademico per la loro formazione, al fine di rendere più attrattiva questa professione, passando dall’attuale corso di formazione in Medicina generale post laurea, di durata triennale e gestito dalle Regioni – a una specializzazione universitaria della durata minima di 4 anni.
Questa revisione del modello degli studi consentirebbe al medico di poter prescrivere il ricovero dove necessario, in modo che il cittadino possa saltare l’attesa in Pronto soccorso ed entrare subito in reparto.
Una sperimentazione è già stata fatta in Lombardia, con l’istituzione di un codice blu, “ma il problema è che per poter fare questo medico dovrebbe essere messo in grado di effettuare esami diagnostici completi, a partire da elettrocardiogrammi e test cardiologici. – afferma il segretario della Federazione italiana dei medici di famiglia (Fimmg), Silvestro Scotti – Ma ad oggi i nostri studi ancora non hanno la strumentazione diagnostica necessaria. I fondi per la dotazione diagnostica sono previsti dal 2019, ma le Regioni non hanno avviato le procedure necessarie”.