Con il termine “immunizzazione” si indica l’acquisizione di uno stato di immunità da parte dell’organismo contro un determinato antigene. Questo processo può avere luogo naturalmente (quando si viene esposti a batteri o virus) oppure si può ottenere attraverso la vaccinazione. Nel primo caso si parla di “immunizzazione passiva” e nel secondo di “immunizzazione attiva”. Quest’ultima ha una durata più lunga nel tempo e può proteggere da diverse malattie epidemiche, tra cui il tifo, il morbillo e la rosolia. L’immunizzazione passiva ha una durata più breve e può essere utile nel trattamento e nella profilassi di patologie virali o batteriche. I soggetti immunizzati contro una certa malattia non la contraggono o ne contraggono una forma lieve. Come spiega MSD, nessun vaccino è efficacie al 100%, dunque le probabilità di ammalarsi non sono mai del tutto pari a zero.
Dopo aver appurato che anche chi è vaccinato può comunque contrarre una malattia (nella maggior parte dei casi in forma più lieve) sorgono spontanee due domande. La prima è questa: nel caso del Covid-19, quanto dura l’immunizzazione attiva fornita dai vaccini? La seconda, invece, riguarda un argomento ormai sempre più all’ordine del giorno: le varianti. Di fronte a queste mutazioni del virus, ha ancora senso parlare di immunizzazione? O la loro circolazione ha fatto compiere alla lotta a Sars-CoV-2 un passo indietro?
Procediamo con ordine.
Per quanto riguarda la durata dell’immunizzazione fornita dai vaccini è difficile fornire una risposta precisa. Sul proprio sito ufficiale l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) spiega che “le osservazioni fatte nei test finora hanno dimostrato che la protezione dura alcuni mesi, mentre bisognerà aspettare periodi di osservazione più lunghi per capire se una vaccinazione sarà sufficiente per più anni o servirà ripeterla. Non è ancora chiaro, ma sono in corso studi in merito, se il vaccino protegge solo dalla malattia o impedisce anche l’infezione. Almeno in un primo momento anche chi è vaccinato dovrebbe mantenere alcune misure di protezione”.
Per capire se le varianti del virus possano o meno superare l’immunizzazione acquisita, è necessario rispondere a una domanda: i vaccini sono efficaci contro queste mutazioni del virus? L’unico modo per stabilirlo è affidarsi ai risultati degli studi più recenti e ai dati diffusi dai ministeri della Salute di vari Paesi. Anche in questo caso, però, è difficile arrivare a una risposta univoca. Parlando della variante Delta, per esempio, uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine indica che due dosi del vaccino di Pfizer o AstraZeneca offrono una buona protezione nei suoi confronti. Si parla di numeri che oscillano tra il 67% e l’88%. Tuttavia, il ministero della Salute di Israele ha diffuso dei dati diversi, dai quali emerge che il vaccino di Pfizer ha un’efficacia di appena il 39% nei confronti di questa mutazione.
Di fronte a queste cifre, è impossibile dare una risposta precisa alle domande che ci siamo posti. Si parla sempre più spesso di una possibile terza dose, necessaria per rafforzare la protezione fornita dai vaccini, e alcuni Paesi, come Israele, hanno già deciso di somministrarla 5 o 6 mesi dopo il completamento del ciclo vaccinale. In Italia però non è ancora chiaro che cosa succederà.
Nel corso di una recente conferenza stampa, Giovanni Rezza, il direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute ha dichiarato che “non ci sono ancora evidenze talmente forti per dire se faremo la terza dose a tutti o solo ad alcuni”. “Probabilmente le persone immunodepresse potranno ricevere un richiamo, visto che anche il Cts si è espresso in tal senso. Per quanto riguarda le altre persone fragili, gli anziani e gli operatori sanitari, c’è una discussione anche in ambito europeo e ancora non si è giunti a una decisione”, ha aggiunto.
Insomma, la questione è ancora aperta e, con ogni probabilità, sarà necessario attendere ulteriori studi sulla pandemia per avere un quadro più chiaro della situazione.
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