Autonomia differenziata: è simile alla secessione chiesta dalla Lega Nord in passato?

L’autonomia differenziata è un processo che è andato di pari passo però con la richiesta di maggiore autonomia da parte della Lega Nord

La Lega ha trionfato: non quella di Matteo Salvini, con il suo tentativo di trasformarla in un partito nazionale, ma quella di Umberto Bossi.

La legge sull’autonomia differenziata, scritta dal leghista di vecchia data Roberto Calderoli e approvata ieri dal Senato, si avvicina molto al federalismo quasi secessionista della prima Lega.

Approvata con 110 voti favorevoli e 64 contrari, la legge divide l’Italia in regioni ricche e povere, favorendo le regioni del Nord e penalizzando quelle del Sud.

Autonomia differenziata: è davvero simile alla secessione richiesta anni fa dalla Lega Nord?

Hanno votato a favore tutte le forze di maggioranza, mentre le opposizioni hanno votato contro, eccetto Azione che si è astenuta. Mariastella Gelmini, in dissenso, ha votato a favore.

Il voto è stato accompagnato dall’Inno di Mameli, intonato inizialmente dall’opposizione ma subito seguito dalla maggioranza. Bandiere tricolori sventolavano e tra esse è spuntato anche il vessillo leghista.

La riforma, che segna il divorzio dell’Italia ricca da quella povera, è un evento drammatico celebrato in un contesto grottesco. Zaia, felice, ha definito la riforma una “pietra miliare”.

Autonomia differenziata: è davvero simile alla secessione richiesta anni fa dalla Lega Nord?
Autonomia differenziata: è davvero simile alla secessione richiesta anni fa dalla Lega Nord? – ANSA – Newsby.it

 

Per Calderoli è “il primo passo verso un risultato storico. In realtà sembra solo un primo passo, ma è l’ultimo. Nel sistema monocamerale alternato che si è di fatto affermato, la Camera dei Deputati si limiterà a ratificare. L’approvazione definitiva di Montecitorio arriverà comunque prima delle elezioni europee del 9 giugno. La Lega ha bisogno di una vittoria simbolica da sbandierare e la otterrà”.

Questa è la prima tra le grandi riforme promesse, o minacciate, dalla destra, ed è anche la più dannosa. In attuazione del controverso Titolo V della Costituzione, imposto dal governo dell’Ulivo nel 2001 poche ore prima dello scioglimento delle Camere e con una maggioranza minima, assegnerà alle regioni a statuto ordinario che ne faranno richiesta la competenza esclusiva su 23 materie.

Tra queste materie, 20 erano finora a potestà concorrente, in cui lo Stato centrale definiva i principi fondamentali, e 3 erano di competenza esclusiva dello Stato. Nel primo gruppo rientrano materie come il lavoro, la ricerca tecnologica, la protezione civile, il governo del territorio e la distribuzione dell’energia. Nel secondo gruppo vi sono istruzione e ambiente.

Sulla carta, la disuguaglianza tra aree ricche e povere del Paese dovrebbe essere colmata da un emendamento voluto in extremis da Fratelli d’Italia. Questo emendamento prevedrebbe lo stanziamento di fondi per uniformare i LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) anche nelle regioni che non accederanno all’autonomia differenziata. Tuttavia, si trattava solo di un correttivo che non sarebbe comunque bastato a risolvere il problema.

Il ministro dell’Economia Giorgetti ha poi vanificato questo tentativo imponendo una condizione determinante: la perequazione sarà possibile solo “a invarianza di bilancio”.

Una missione impossibile considerando che nella scorsa legislatura la cifra necessaria per uniformare i LEP era stimata in 50 miliardi, e secondo molte voci non sarebbe stata sufficiente. All’epoca, inoltre, si parlava di una versione dell’autonomia molto più debole, che non includeva il passaggio dell’Istruzione alla competenza regionale.

La divisione dell’Italia in due fasce, una di serie A e una di serie B, è solo uno dei problemi derivanti dalla vittoria della Lega. All’interno di questa divisione, se ne creeranno altre, determinando 20 realtà regionali disomogenee. Fratelli d’Italia ha accettato l’autonomia leghista in cambio del via libera al presidenzialismo.

La premier ha affermato che la presenza di un premier forte, eletto direttamente, rende necessario rafforzare anche le autonomie regionali. Il capogruppo leghista Romeo, ieri in aula, ha ripetuto lo stesso concetto per rassicurare gli alleati sulla loro intenzione di rispettare il patto.

Tuttavia, è facile immaginare che questi due poteri forti finiranno prima o poi per entrare in conflitto, aumentando i danni già ingenti provocati dal Titolo V negli ultimi vent’anni.

Il PD si è opposto a questa riforma in modo debole e poco incisivo. Ieri in aula, non ha parlato il capogruppo in dichiarazione di voto, ma il senatore Giorgis, che si è concentrato soprattutto sui limiti costituzionali e giuridici della legge, citando solo alla fine “il rischio di aumentare le disuguaglianze”.

Parte della responsabilità per aver aperto la strada con la riforma del Titolo V ricade sul PD. Parte del PD spera che la Corte Costituzionale bocci la legge. Non è una scommessa irragionevole, poiché esiste una reale possibilità che la Consulta respinga l’autonomia.

Tuttavia, una sentenza che cancellasse alcune parti della legge mantenendone altre potrebbe creare lo stesso caos visto con le sentenze della Corte sulle leggi elettorali.

Ieri in aula, il PD non ha menzionato il referendum, possibilità che aveva timidamente accennato nei giorni scorsi. Ma se c’è una legge che andrebbe contrastata frontalmente con un referendum abrogativo, è proprio questa.

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