Non è stato facile ottenere quella che appare come una piena vittoria per Giorgia Meloni. Non era nemmeno così scontato. Perché da mesi la leader di Fratelli d’Italia temeva che avrebbero “fatto qualsiasi cosa per fermarmi” e sapeva di avere solo due armi per difendersi da una possibile ghettizzazione. Una erano i voti veri, non solo i sondaggi (altissimi e sempre in crescita) che possono però oscillare. E le elezioni amministrative di giugno, che hanno fatto del suo partito il più votato fra quelli della coalizione anche nel Nord a trazione leghista, sono state un’enorme spinta per creare un prima e un dopo. L’altra arma era chiedere una cosa ‘semplice’: “Il rispetto delle regole. Che non si cambiano se chi può vincere, stavolta, siamo noi. Perché noi le abbiamo sempre rispettate”. Regole su premiership e divisione collegi. Tutte alla fine accolte secondo le sue richieste.
Il timore iniziale di Giorgia Meloni: “Qua non si sa nemmeno se c’è una coalizione…”
“Come sempre è stato, chi prende un voto in più deve esprimere il premier, altrimenti è inutile stare assieme al governo”, era sempre stata la martellante richiesta di Giorgia Meloni. “Leggo di ipotesi di governo, di ministri, di pesi… Qua non si sa nemmeno se c’è una coalizione…”, erano invece state le sue parole due ore prima del vertice. E in fondo quello di correre da sola era il suo piano B, che fino all’ultimo la leader di Fratelli d’Italia non ha abbandonato. Ma non è stata rottura. Che avrebbe devastato più gli alleati che il suo partito, avviato comunque probabilmente a diventare il primo in Italia, quindi essenziale o per fare un governo o per costringere gli altri a “un’altra ammucchiata”.
Sul punto è stata intesa, come era logico accadesse. E anche sui collegi, almeno sulla carta, visto che il difficile sarà ora quali dare a chi. Perché “noi”, ha detto Meloni ai suoi, “ci siamo dimostrati generosi: potevamo chiedere di più, ma abbiamo accettato di venir loro incontro, ovviamente dopo aver scartato proposte o algoritmi inaccettabili. Tenere conto dei sondaggi di prima della caduta del governo Draghi ci sta, anche se allora avevamo numeri più bassi. E anche farci carico noi della maggior parte dei candidati centristi va bene. Sia perché siamo il partito maggiore oggi, sia perché a differenza di quanto dicono siamo inclusivi e vogliamo accogliere anche i moderati nelle nostre liste. Esattamente come fa un partito conservatore, quale siamo”.
Il lavoro sulle imminenti candidature
Ora Giorgia Meloni dovrà lavorare anche sulle candidature interne per la competizione elettorale, ed esterne. Perché la leader di FdI sa che il punto su cui verrà attaccata, come già sta accadendo, è non solo quello tradizionale di una provenienza di destra post-fascista, che lei rifiuta e respinge con tutte le forze, ma anche di una classe dirigente non all’altezza. Lei contesta una ricostruzione che trova “falsa e bugiarda”, darà spazio ai fedelissimi, ai big, ad amministratori, giovani ma anche a nomi fuori dal recinto del partito. Già alla Convention di Milano dell’aprile scorso sono stati ospitati esponenti dell’industria, delle professioni, della diplomazia, dell’università, dei sindacati d’area. Guardando anche al governo e sapendo che non c’è una mossa che possa permettersi di sbagliare, per non sprecare un vantaggio che ad oggi sembra incolmabile.