Il politically correct a volte è una linea sottile e quando si finisce a parlare di alcuni argomenti particolarmente delicati, come l’Olocausto, la gaffe è sempre dietro l’angolo.
Stanno facendo scalpore in questi giorni le affermazioni dell’attrice e conduttrice statunitense Whoopi Goldberg in merito al fatto che l’Olocausto “non riguarda la razza” durante un episodio del suo talk show.
“Siamo sinceri, l’Olocausto non riguarda la razza, non lo è. Si tratta della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, ecco di cosa si tratta. Questi sono due gruppi di bianchi“, ha detto lunedì a The View.
L’attrice ha poi continuato: “Riguarda il modo in cui le persone si trattano. È un problema. Non importa se siete bianchi o neri, ebrei… Tutti si mangiano a vicenda“. L’Auschwitz Memorial e StopAntisemitism.org hanno subito condannato le sue affermazioni. Con Jonathan Greenblatt dell’Anti-Defamation League che ha definito i commenti “pericolosi“. Pronte sono arrivate le scuse dell’attrice che ha commentato: “Il popolo ebraico in tutto il mondo ha sempre avuto il mio sostegno e questo non vacillerà mai. Mi dispiace per il male che ho causato“. Ciononostante, proprio per le polemiche sorte, la ABC ha stabilito una sospensione per due settimane con effetto immediato nei confronti della Goldberg.
L’ex attrice di Sister Act è solo l’ultima di una serie di personaggi che hanno attirato su di loro una serie di riprovazioni a causa della scelta poco felice delle parole. Al centro delle polemiche finì anche Barack Obama, premio Nobel per la pace. Durante una cerimonia di premiazione per un importante personaggio della resistenza polacca, l’ex presidente parlò infatti di “campi di sterminio polacchi”. Una scelta di parole che attirarono subito le ire della Polonia che richiese immediate scuse ufficiali.
Rimanendo sempre a Washington, l’ex portavoce di Donald Trump, Sean Spicer, finì al centro di una vera e propria bufera per aver paragonato Hitler a Assad sull’uso delle armi chimiche.
“Vedete – ha detto Spicer – non abbiamo fatto uso di armi chimiche durante la Seconda guerra mondiale. Neanche una persona spregevole come Hitler è arrivata al livello di usare le armi chimiche”. Un commento che causò un grave imbarazzo per Spicer che cercò in seguito, senza riuscirci, di fornire una spiegazione credibile a quanto detto. Dall’opposizione giunsero numerosi inviti a dimettersi.
La libertà di informazione è un diritto universale ma occorre sempre tracciare una linea tra realtà e fake news. E proprio per favorire la libertà individuale, il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, si spinse un po’ troppo oltre, sottolineando l’intenzione di non censurare anche i negazionisti dell’Olocausto.
“Facebook difende il diritto degli utenti di sbagliare, anche quando si tratta di negare l’Olocausto“, affermò Zuckerberg. Il patron del social media argomentò la decisione di consentire contenuti controversi purché non si fossero tradotti in danni reali, fisici o in attacchi a individui.
La Anti-Defamation League, organizzazione non governativa internazionale ebraica con sede negli Stati Uniti, affermò che Facebook “avesse l’obbligo morale ed etico” di non disseminare idee sulla negazione dell’Olocausto. Zuckerberg rispose prontamente sostenendo che non intendeva difendere quanti negavano l’Olocausto. Ma che l’obiettivo della piattaforma era quello di impedire la diffusione di fake news piuttosto che estirparle alla radice.
Chiunque può sbagliare la scelta di parole e rischiare di offendere, anche se si tratta di un leader religioso come l’Arcivescovo di Canterbury.
Dopo avere letto l’ultimo rapporto dell’Onu sulle previsioni di come sarà il mondo tra 30 anni a causa dei cambiamenti climatici, Justin Welby, Arcivescovo di Canterbury si deve essere spaventato molto. Tanto da definire lo scenario annunciato “peggio della devastazione dell’Olocausto”. E paragonare l’ignavia dei leader politici attuali a quelli degli anni’30 e 40′ che non reagirono con sufficiente prontezza per intervenire mentre gli ebrei venivano sterminati.
Subito dopo, però, Welby ha dovuto scusarsi pubblicamente per essersi lasciato andare ad una immagine un po’ forte, correndo ai ripari con un Tweet riparatore verso il mondo ebraico.
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