Velo islamico, per la Corte di giustizia europea si può vietare negli uffici pubblici

Sarà possibile proibire agli impiegati pubblici dell’Unione europea di esibire simboli religiosi sul posto di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea esprimendosi sul caso di una donna, una dipendente del Comune di Ans in Belgio, a cui nel 2021 era stato vietato di indossare il velo islamico in ufficio. “Una pubblica amministrazione può proibire all’insieme dei suoi dipendenti di indossare segni religiosi sul luogo di lavoro” con la volontà di garantire un ambiente completamente neutrale.

I giudici del Lussemburgo hanno precisato che la regola, per essere lecita, deve applicarsi a tutto il personale. Un divieto “non è discriminatorio se viene applicato in maniera generale e indiscriminata a tutto il personale dell’amministrazione e si limita allo stretto necessario”.

Il caso belga

Come spiegano i giudici nella sentenza, l’amministrazione nel febbraio del 2021 ha introdotto un regolamento che richiede al personale “neutralità”, vietando qualsiasi forma di “proselitismo” oltreché di esibire “segni vistosi della propria appartenenza ideologica o religiosa ai dipendenti”.

La donna, O.P. di fede mussulmana, si è quindi rivolta al Tribunale di Liegi chiedendo di annullare il divieto con la motivazione che violerebbe la sua libertà di religione, tanto più in considerazione del fatto che il ruolo di responsabile, che ricopre all’interno dell’ufficio appalti, non la mette in contatto con il pubblico. I giudici belgi hanno deciso di sottoporre il caso alla Corte di giustizia per valutarne la conformità alle norme europee.

Secondo i giudici del Lussemburgo, il divieto non vìola il divieto di discriminazione sancito dal diritto comunitario perché “la politica di rigorosa neutralità imposta da una pubblica amministrazione ai suoi dipendenti al fine di creare al suo interno un ambiente amministrativo totalmente neutro può essere considerata oggettivamente giustificata da una finalità legittima”.

La legale della donna, Sibylle Gioe, ha criticato l’ambiguità della sentenza: “Il diritto dell’Unione europea non privilegia una soluzione a scapito di un’altra”, ha detto al Guardian. “Mi aspettavo qualcosa del genere”.

Le critiche alla sentenza

Il pronunciamento della Corte europea si è già attirata qualche critica. È il caso del network Femyso, che riunisce oltre trenta organizzazioni di giovani musulmani in Europa, secondo cui la sentenza comprime la libertà di espressione e di religione.Malgrado siano ammantati dalla neutralità, i divieti sui simboli religiosi sistematicamente prendono di mira il velo”.

Donna con velo islamico sul luogo di lavoro
Foto | Pexels / Ron Lach – Newsby.it

Il pericolo, sostengono, è che la decisione non faccia che amplificare la marginalizzazione delle donne musulmane, già “discriminate in molti campi”, in una fase in cui l’islamofobia è in crescita: “La sentenza rischia di legittimare la loro rimozione dalla vita pubblica”. La soluzione, secondo Femyso, risiede piuttosto nella inclusività dei luoghi di lavoro, dove le persone di tutte le fedi possono partecipare pienamente senza paura di essere discriminati, inclusi i giovani musulmani”.

Del resto non è la prima volta che la Corte di Giustizia europea emette sentenze simili. Nel 2021 per esempio i giudici si sono pronunciati sui luoghi di lavoro nel settore privato, stabilendo che i datori di lavoro possono limitare la libertà di espressione religiosa e politica in presenza di un “bisogno autentico” di “presentare ai clienti una immagine neutrale” o di “prevenire conflitti”. Un divieto che, ha ribadito un anno dopo, non rappresenta una discriminazione se è applicato equamente a tutti i dipendenti, in analogia a quanto stabilito con la sentenza di ieri.

La posizione è criticata anche da Human Rights Watch.Le donne musulmane non dovrebbero scegliere tra la propria fede e il lavoro”, ha commentato in quell’occasione Hillary Margolis di Hrw, osservando come il più delle volte le restrizioni prendano di mira il velo islamico. Secondo la ricercatrice, la “neutralità” viene “utilizzata per giustificare” i divieti, aprendo la strada a una “discriminazione generalizzata sul lavoro”.

Il caso francese

Ha fatto molto discutere una decisione analoga adottata lo scorso agosto dal governo francese, che dopo il velo islamico, ha messo al bando anche l’abaya, il lungo abito tradizionale delle donne, oltreché il qamis, la versione maschile dell’indumento.

In nome della laicità dello Stato, il Paese applica da tempo una politica restrittiva vietando l’esibizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici. Il velo e altri segni “evidenti” già dal 2004 non possono entrare in classe. Contro l’ulteriore giro di vite lo scorso settembre si sono mosse le associazioni musulmane facendo ricorso al Consiglio di Stato francese, che però lo ha respinto confermando il divieto perché “non costituisce un attacco grave e manifestamente illegale” ai diritti degli studenti.

Non sono mancate le proteste degli insegnati, che in alcuni istituti hanno scioperato: “Non vogliamo essere la polizia dell’abbigliamento”, hanno spiegato. La segretaria del sindacato Cgt Sophie Binet dal canto suo ha attaccato il provvedimento perché “stigmatizza una parte della popolazione“.

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