Automobili stipate con famiglie e valigie. È una marea umana quella che si è riversata in Armenia in fuga dal Nagorno Karabakh, l’enclave separatista a maggioranza armena in territorio azero, dopo l‘offensiva lampo lanciata la scorsa settimana dall’Azerbaijan. Quasi 30mila armeni, un quarto della popolazione della regione contesa del Caucaso meridionale, sono riusciti a passare il confine, in un esodo forzato e “massiccio” che prosegue nell’inerzia della Russia, dal 2020 presente con una forza di mantenimento della pace. E i numeri continuano a salire di ora in ora.
Esplode un deposito di carburante, almeno 68 morti
Ad aggiungere dramma alla crisi umanitaria, l’esplosione di un deposito di carburante nella regione separatista avvenuta ieri sera mentre migliaia di armeni erano in fila per rifornire le proprie auto. Almeno 68 persone sono rimaste uccise, centinaia i feriti. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr) non a caso ha parlato di “tragedia assoluta”, ricordando che gli ospedali della regione erano già al limite prima dell’afflusso di pazienti causato dalla deflagrazione.
Migliaia di rifugiati
L’Armenia è pronta ad accogliere fino a 40mila famiglie di rifugiati dal Nagorno-Karabakh, ha fatto sapere il primo ministro armeno Nikol Pashinyanr, sottolineando che il Paese sta preparando una sistemazione per decine di migliaia di persone.
Il difensore civico per i diritti umani del Karabakh Gegham Stepanyan ha descritto le strade del capoluogo Khankendi, conosciuta come Stepanakert dagli armeni, come “piene di sfollati, affamati e spaventati”.
Il fronte diplomatico
Intanto sul fronte diplomatico, Bruxelles, che segue da vicino la crisi, vede nel summit della Comunità politica europea, in programma il prossimo 5 ottobre a Granada, un’occasione per un incontro tra i leader armeno e azero. “Sono necessarie azioni concrete e soluzioni di compromesso decisive su tutti i fronti del processo di normalizzazione”, ha spiegato una portavoce del Consiglio Ue.
Intenso il lavoro diplomatico anche degli Stati Uniti. Alti funzionari Usa, inviati da Joe Biden dopo lo scoppio delle violenze, sono arrivati in Armenia per confermare il sostegno di Washington alla sovranità, all’integrità territoriale e alla democrazia dell’Armenia e per fornire assistenza umanitaria. Mentre il segretario di Stato Antony Blinken ha parlato con il presidente azero chiedendogli di proteggere i civili.
Offensiva lampo in Nagorno-Karabakh
Dal 1993 Stato de facto indipendente, il Nagorno Karabakh è da decenni al centro di rivendicazioni etniche e territoriali, in passato sfociate in due guerre sanguinose contro l’Azerbaigian, la prima dopo il crollo dell’Urss all’inizio degli anni Novanta e poi nel 2020.
La scorsa settimana Baku ha lanciato un’offensiva lampo sul Nagorno-Karabakh, con l’esercito che ha preso il controllo di quasi tutto il territorio costringendo in appena due giorni le autorità locali alla resa.
Il presidente azero Ilham Aliyev ha annunciato lo stop alla “operazione antiterrorismo” in un discorso televisivo alla Nazione. “Le unità armene illegali hanno iniziato il processo di ritiro dalle loro posizioni. Hanno accettato le nostre condizioni e hanno iniziato a consegnare le armi”, ha detto dichiarando la piena sovranità sulla regione secessionista.
Quanto alla popolazione del Nagorno-Karabakh, Aliyev ha rassicurato circa la volontà di integrare gli armeni dell’enclave e trasformare la Regione in un “paradiso”.
Almeno 200 morti e 400 feriti in 24 ore
L’intervento militare, che ha fatto almeno 200 morti e 400 feriti in 24 ore, è arrivato dopo mesi di tensioni attorno alla regione iniziate lo scorso dicembre, quando l’Azerbaigian aveva di fatto bloccato il corridoio di Lachin, unica via di collegamento fra il Nagorno Karabakh e l’Armenia mettendo a rischio il rifornimento di beni essenziali per gli abitanti dell’enclave.
Baku ha accusato le forze armene di aver “sistematicamente bombardato” posizioni dell’esercito azero e di aver quindi risposto con “un’azione locale anti terrorismo per disarmare e assicurare il ritiro di formazioni dell’esercito armeno” dal territorio.
Erevan dal canto suo ha definito “fake news” le accuse mosse dall’Azerbaigian di mantenere una presenza militare nel Nagorno-Karabakh. E ha accusato allo stesso tempo Mosca, a lungo potenza protettrice dell’Armenia, di non tutelare più la sua sicurezza.
Il cessate il fuoco e la resa delle autorità separatiste
In base agli accordi sul cessate il fuoco raggiunto con la mediazione delle forze di peacekeeping russe, i separatisti armeni hanno deposto le armi.
In un appello rivolto alla popolazione della regione separatista, il presidente azero ha intimato alle “forze armate illegali armene” di “issare bandiera bianca, consegnare tutte le armi” mentre “il regime illegale deve dissolversi. Altrimenti le operazioni antiterrorismo continueranno fino alla fine”.
Nel giro di poche ore è arrivata la resa delle autorità separatiste che hanno annunciato il “ritiro delle unità e dei militari rimasti delle forze armate armene” e “la dissoluzione e il disarmo completo delle formazioni armate dell’esercito di difesa del Nagorno-Karabakh”.
L’Armenia accusa Baku di “pulizia etnica”
Parlando davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra, l’ambasciatore armeno Andranik Hovhannisyan ha denunciato una “pulizia etnica” da parte azera: “Questa non è una semplice situazione di conflitto, è un crimine contro l’umanità e dovrebbe essere trattato come tale”.
Trent’anni di conflitto
Nel 1991, dopo oltre tre anni di tensioni e scontri fra armeni e azeri, la regione del Nagorno Karabakh annuncia la secessione dall’Azerbaijan, a maggioranza musulmana e di etnia turca, appena diventato indipendente dall’Unione sovietica. Nasce l’Artsakh, la repubblica autoproclamata dalla popolazione armena in Nagorno Karabakh, non riconosciuta dalla comunità internazionale e governata dalla comunità armena.
Alla fine di novembre, l’Azerbaigian annulla il regime di autonomia concesso all’enclave. È l’inizio della fase più intensa del conflitto per il controllo della regione, che sfocia nella prima guerra del Nagorno Karabakh.
Le ostilità vanno avanti fino al maggio del 1994, quando viene firmato un accordo per il cessate il fuoco. Gli armeni prendono il controllo del Nagorno Karabakh e delle zone circostanti. Il bilancio della guerra è di trentamila morti e centinaia di migliaia di profughi, in maggioranza azeri.
Per un decennio, tra il 1995 e il 2015, lungo la linea di contatto prosegue un conflitto a bassa intensità con sporadiche violazioni del cessate il fuoco.
Nell’aprile del 2016 riprendono le ostilità. È la cosiddetta guerra dei quattro giorni, innescata da un’offensiva azera contro i territori occupati dagli armeni. I morti tra i civili si contano a centinaia. Un nuovo cessate il fuoco viene siglato con la mediazione di Mosca.
La seconda guerra del Nagorno Karabakh risale al 27 settembre del 2020, quando le forze azere lanciano un’offensiva nella regione. Le ostilità vanno avanti per oltre 40 giorni e si concludono con la vittoria dell’Azerbaigian, che riconquista i terrori circostanti il Nagorno Karabakh, persi nel 1994, oltre a diverse aree della repubblica dell’Artsakh. Il cessate il fuoco è siglato il 10 novembre, sotto la supervisione della Russia. Più di 90mila armeni sono costretti a lasciare le loro case.
Nel settembre dello scorso anno lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian scoppiano nuovi scontri armati. Le vittime tra civili e militari sono circa 300.
L’ultimo capitolo di un conflitto che si strascina da oltre trent’anni è cronaca di questi giorni, con Baku che il 19 settembre scorso ha attaccato l’enclave armena e, dopo 24 ore di intensi combattimenti, ha siglato un cessate il fuoco che ha decretato di fatto la resa dei separatisti del Nagorno Karabakh.