L’attivista iraniana e premio Nobel per la pace 2023 Narges Mohammadi dalla cella del famigerato carcere di Evin, a Teheran, ha iniziato lo sciopero della fame. Un gesto estremo contro le limitazioni alle cure mediche e contro l’obbligo di indossare il velo imposto a tutte le detenute. A darne notizia sono stati i familiari, che già agli inizi di novembre avevano denunciato la mancata autorizzazione al trasferimento in ospedale della 51enne affetta da gravi patologie cardiache e polmonari perché rifiuta di indossare lo hijab.
Secondo il referto medico di un elettrocardiogramma, hanno spiegato con un messaggio condiviso su Instagram, la donna ha urgente bisogno di cure. “Siamo preoccupati per le sue condizioni fisiche e la sua salute”, hanno detto. “La Repubblica islamica sarà responsabile di qualunque cosa accada alla nostra amata Narges”.
Il premio Nobel per la pace 2023
Lo scorso 7 ottobre ha alimentato speranze l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2023 alla giornalista iraniana. Un riconoscimento per “la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per i suoi sforzi nella promozione dei diritti umani e della libertà per tutti”. Il comitato per il Nobel in quell’occasione ha espresso l’auspicio che il regime di Teheran rilasciasse la donna, detenuta dal maggio del 2016.
“Donna, vita, libertà”, a Oslo lo slogan delle proteste
“La coraggiosa lotta di Narges Mohammadi ha comportato enormi costi personali. Il regime iraniano l’ha arrestata 13 volte, condannata cinque volte e condannata a un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate”, ha ricordato la presidente del Comitato Berit Reiss-Andersen nella speranza che il riconoscimento spingesse il governo iraniano ad “ascoltare il proprio popolo”.
Un premio che attraverso Mohammadi va a “un intero movimento in Iran” con la speranza che possa servire da “incoraggiamento a continuare il lavoro”, ha detto Reiss-Andersen con il pensiero rivolto a tutte le donne e le ragazze che continuano a protestare contro il regime degli Ayatollah a oltre un anno dalla morte della giovane Mahsa Amini, la 22enne curda uccisa mentre era sotto la custodia della polizia morale per aver violato il rigido codice di abbigliamento femminile della Repubblica islamica.
Prima di annunciare il nome di Mohammadi, la presidente ha scandito più volte lo slogan diventato in tutto il mondo il simbolo delle proteste delle donne contro la repressione del regime di Teheran “donna, vita, libertà”.
Per la famiglia dell’attivista il premio è stato motivo di grande gioia. “Un momento storico per la lotta per la libertà in Iran. Sono così felice per Narges”, ha detto il fratello Hamidreza, senza tuttavia lasciarsi prendere dall’ottimismo. “È difficile che possa essere rilasciata, sotto questo regime”. Il “premio è per il popolo iraniano e le proteste”, aveva detto invece uno dei figli di Mohammadi, Ali Rahmani, che vive a Parigi con la sorella e il padre, Taghi Rahmani, anche lui attivista.
Amnesty International: “In carcere le negano le cure”
Il giorno della premiazione anche Amnesty International ha denunciato il trattamento che subisce la donna in carcere: “A dimostrazione dell’inumanità delle tattiche impiegate per reprimere le voci critiche, le autorità iraniane sottopongono da anni Narges Mohammadi a torture, minacce di morte e diniego di cure mediche specialistiche. Le stanno persino impedendo di vedere i due figli. Nonostante questo enorme costo personale, gli incessanti tentativi di ridurla al silenzio e la prospettiva di trascorrere il resto della sua vita in prigione, continua coraggiosamente a chiedere un cambiamento, non solo per sé stessa ma per le donne, gli uomini, le bambine e i bambini di tutto l’Iran”.
Il secondo Nobel per la pace a una donna iraniana
Quello dello scorso ottobre non è stato il primo riconoscimento assegnato dall’accademia di Svezia a un’attivista iraniana. Il primo era andato nel 2003 a Shirin Ebadi, giurista in esilio, prima donna musulmana a ricevere il premio Nobel per la Pace.
Mohammadi, stretta collaboratrice proprio di Ebadi, nel 2009 ha vinto anche il premio Alexander Langer per il proprio impegno per un “altro” Iran. L’attivista non partecipò alla cerimonia a Città di Castello perché privata del passaporto dalle autorità di Teheran.
Nargis Mohammadi, la spina nel fianco degli ayatollah
Narges Mohammadi negli ultimi 25 anni è stata sistematicamente imprigionata e condannata dai tribunali della Repubblica islamica per le campagne contro il velo obbligatorio e la pena di morte. Ma la “leonessa dell’Iran”, come la chiamano le donne della sua terra, non ha mai ceduto alla pressione devastante della clausura forzata.
Proprio il 16 settembre, per ricordare l’anniversario della morte di Mahsa Amini, insieme con altre tre detenute ha bruciato il velo nel cortile della prigione di Evin, dove è costretta a coprire con il velo i suoi lunghi capelli neri. Indomabile, il mese scorso ha scritto una lettera alla France Presse: “Il movimento ‘Donna, Vita, Libertà’ ha accelerato il processo di democrazia, che ora è irreversibile”.
Mohammadi è una vera spina nel fianco degli ayatollah, soprattutto perché è diventata un simbolo e un’ispirazione per le donne iraniane. Sin da quando, nel lontano 1998, il regime le ha messo per la prima volta le manette attorno ai polsi. Fu l’inizio del calvario per l’attivista, che da allora è entrata e uscita dal carcere per 13 volte.
Nell’aprile 2010 è stata convocata dalla Corte rivoluzionaria islamica per l’adesione al Centro per la difesa dei Diritti Umani, di cui è vice presidente. Poi rilasciata con una cauzione di 50mila dollari e nuovamente arrestata qualche giorno dopo e rinchiusa nella prigione di Evin. Una volta fuori, Narges è stata nuovamente imprigionata nel luglio 2011. Quindi è tornata in carcere nel 2015. E nel 2016. Il 16 novembre 2021, in un raro momento di libertà, è stata arrestata nuovamente dalle guardie islamiche mentre partecipava a una cerimonia in ricordo di Ebrahim Ketabdar, ucciso dalle forze dell’ordine durante le proteste del novembre 2019. Il 15 gennaio 2022 è stata condannata a otto anni e due mesi di reclusione, due anni di isolamento e 74 frustate.
Ma Narges non lascia il campo di battaglia, neppure da dietro le sbarre, consapevole di non avere alcuna possibilità di tornare libera. Almeno fino a quando ci saranno gli ayatollah. “Pace e diritti umani sono i miei obiettivi, sono decisa a provarci anche più di prima. Sono certa che con i nostri sforzi, grazie alla perseveranza e alla protezione di chi si batte con noi per i diritti umani, vinceremo”, ha detto tre anni fa in un videomessaggio.