In ebraico il termine kibbutz significa “ritrovo” o “collettivo” (il suo plurale è kibbutzim). Nel corso degli ultimi decenni è diventato sinonimo di una particolare forma di comunità presente nel territorio di Israele, basata sull’eguaglianza tra i suoi componenti, la cooperazione e la condivisione delle risorse, del lavoro e della proprietà. Un’utopia su piccola scala, che di recente ha dovuto fare i conti con i cambiamenti portati dalla società moderna e dal capitalismo, rinunciando a parte del suo spirito originale. Ma anche un bersaglio ovvio per chi desidera scuotere Israele dalle fondamenta e costringerlo a ritirarsi dai territori occupati nel 1967. È proprio quanto avvenuto sabato 7 ottobre, quando alcuni miliziani di Hamas, organizzazione palestinese di matrice paramilitare e politica, hanno preso di mira dei kibbutzim.
L’attacco al festival Nature Party e ai kibbutz vicini alla Striscia di Gaza
Il primo bersaglio dei miliziani di Hamas è stata una festa all’aperto organizzata vicino al kibbutz di Urim, distante circa 15 chilometri dalla Striscia di Gaza. Decine di militanti palestinesi hanno preso d’assalto i partecipanti, perlopiù giovani, al festival di musica elettronica nel deserto chiamato “Nature party”. Molti dei presenti sono riusciti a fuggire, anche grazie all’intervento delle forze israeliane, ma le vittime non sono mancante: 260 ragazzi e ragazze hanno perso la vita. Vari testimoni hanno visto i miliziani intenti a sparare contro i giovani che tentavano di scappare o cercare un nascondiglio, trasformando quel che avrebbe dovuto essere un momento di svago in “un massacro”, in “quattro-cinque ore uscite da un film dell’orrore”.
In seguito sono scoppiati degli scontri tra i miliziani palestinesi e l’esercito israeliano nei kibbutz di Be’eri e di Re’im, entrambi vicini alla Striscia di Gaza. Gli edifici hanno riportato gravi danni e centinaia di abitanti sono stati uccisi o presi in ostaggio. L’attacco ha dimostrato in modo inequivocabile la presenza di un problema nella gestione della sicurezza dei kibbutzim, i cui residenti sono stati lasciati da soli per ore, alla totale mercé degli uomini di Hamas. Sembra probabile che l’organizzazione radicale abbia voluto sfruttare questa debolezza per lanciare un messaggio inequivocabile al governo israeliano: “So dove colpire”. Inoltre, attaccare i kibbutz potrebbe implicare il desiderio di mettere in chiaro la propria distanza da una specifica idea di società.
L’origine dei kibbutz
Per capire meglio cosa rappresentano i kibbutz bisogna fare un tuffo nel passato. La prima comunità di questo tipo, Degania Alef, sorse nel 1910 grazie agli sforzi di alcuni uomini e donne che scelsero di fondare una comune autosufficiente nella quale vivere assieme condividendo tutto. La loro idea si rivelò vincente e ben presto altre piccole comunità analoghe, basate perlopiù sulla coltivazione della terra, fecero la loro comparsa.
Delimitati dai campi, dal deserto o dal filo spinato, i kibbutzim si sono sempre governati da soli tramite un sistema di democrazia diretta, facilmente attuabile per via della presenza di un numero ridotto di abitanti: si spazia dalle cento alle mille persone.
Come si vive nei kibbutz?
Essendo basati sull’uguaglianza, i kibbutz garantiscono a tutti i residenti lo stesso stipendio, un alloggio gratuito e un lavoro. I guadagni sono reinvestiti nella comunità, così da rendere possibili servizi come le cure mediche e permettere che ognuno abbia ciò che gli spetta. Il senso di condivisione è forte e ben esemplificato dal momento del pasto, dove tutti cucinano e mangiano assieme. In passato i bambini passavano poche ore al giorno con i genitori e venivano cresciuti da altri membri della comunità, ma con il passare del tempo questa usanza è caduta in disuso. Inoltre, alcuni kibbutz hanno abbandonato il sistema della parità salariale, permettendo a chi svolge dei lavori essenziali di guadagnare di più. Tuttavia il salario minimo continua a essere garantito per tutti.
Chi nasce in un kibbutz non ha alcun obbligo di restarci per sempre: la libertà di scelta è garantita per tutti. Per quanto in parte ancorate alle proprie tradizioni, alcune di queste comunità si sono evolute nel tempo, un po’ anche per necessità, diventando meno isolate e aprendosi ad alcune dinamiche tipiche della società occidentale. In certi kibbutz i turisti sono i benvenuti, a patto che rispettino le usanze locali, e a Revivim è stato aperto il primo incubatore di startup gestito da un kibbutz.
Una trasformazione iniziata negli anni ‘70
L’inizio del processo di trasformazione dei kibbutz risale agli anni ’70, quando il modello originale iniziò a zoppicare sotto il peso dei debiti accumulati e la crescita delle prime città israeliane spinse molti giovani a lasciarsi alle spalle le proprie comunità di origine. Tra gli anni ’80 e l’inizio del duemila a molti kibbutz fu offerta la possibilità di privatizzare le proprie attività e questo portò a una riduzione del numero degli abitanti pari a circa un decimo (si passò dai 129mila registrati nel 1989 a circa 116mila). Un trend che però a un certo punto si è invertito, portando a un picco storico di 143mila residenti nel 2010.
Nonostante questa crescita, parte dello spirito originario dei kibbutz è andato perduto, proprio a causa delle trasformazioni precedentemente elencate. Nel 2010, su 262 comunità esistenti solo 66 rispettavano il modello classico, mentre ben 188 prevedevano salari differenziati per i propri membri e nove adottavano una formula mista.