L’Australia ha ufficializzato l’acquisto di nuovi missili per la difesa. Il primo ministro Scott Morrison ha annunciato che il Paese acquisterà missili da crociera statunitensi Tomahawk a lungo raggio, con l’obiettivo di rafforzare le difese militari di fronte a una Cina in crescita.
Morrison ha anche confermato che il Paese non finalizzerà un accordo da 90 miliardi di dollari australiani con la Francia per la fornitura di sottomarini, ma ne costruirà di propri, a propulsione nucleare, utilizzando la tecnologia statunitense e britannica.
Le decisioni di ricorrere ad armamenti pesanti sono arrivate a seguito degli inasprimenti dell’equilibrio geo politico tra Canberra e il colosso cinese.
Una sorta di guerra fredda sta avendo luogo da diverso tempo in questo angolo remoto di mondo. Negli ultimi dieci mesi, le relazioni tra la Cina e l’Australia sono state interessate da tensioni commerciali alle quali se ne sono poi aggiunte altre a livello politico internazionale. Canberra molti anni fa ha siglato importanti accordi con la Cina, e le due economie si sono intrecciate in una relazione economica altamente redditizia. Le materie prime australiane, ferro e litio su tutto, sono indispensabili per l’industria in espansione cinese.
I due Paesi, nel 2015, hanno persino stipulato un accordo di libero scambio e, dal novembre 2020, entrambi sono legati dal Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), il maggior patto commerciale al mondo. In generale, la Cina è il maggior partner commerciale australiano e, insieme, i due Paesi generano un interscambio annuale dal valore di 181 miliardi di dollari.
Canberra ha criticato più volte le invasioni della Cina sul Mar Cinese Meridionale, che è vitale per la navigazione australiana e in cui Pechino ha costruito installazioni militari su isole artificiali per consolidare la sua presa sulla zona. Ciò ha portato a una nuova legislazione progettata per ridurre l’influenza straniera. Tra le altre cose, l’Australia è stato il primo paese a bandire la rete 5g Huawei.
Parallelamente, il primo ministro australiano, Scott Morrison, aveva richiesto un’indagine indipendente sulle origini della pandemia di coronavirus all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Questo è stato recepito come una grave offesa da parte di Pechino.
“Gomma da masticare attaccata alla suola delle scarpe cinesi. E a volte devi trovare una pietra per strofinarla via”: così Hu Xijin, l’editore del Global Times gestito dal Partito comunista cinese, ha definito l’Australia lo scorso anno. E per “strofinare via” il Paese, la Cina ha reagito nell’unico modo che conosce per tenere a bada le nazioni che si vogliono ribellare: la coercizione economica.
Dall’11 maggio 2020, la Cina ha bloccato le importazioni di carne da quattro grandi mattatoi australiani provocando un notevole danno al settore. Occorre considerare che il primo mercato estero per le carni bovine australiane, è proprio la Cina, che ne richiede il 30 % del totale. Da allora, Pechino ha bloccato importazioni o scoraggiato l’acquisto di più prodotti australiani come cereali, carbone, cotone, legname e crostacei.
Il Perth USAsia Centre calcola che l’Australia ha perso 7,3 miliardi di dollari di esportazioni in un periodo di 12 mesi. Canberra però non ha mollato. “Dobbiamo semplicemente mantenere la nostra posizione. Se cedi ai bulli, sarai solo costretto a cedere di più“, ha affermato Turnbull, ex primo ministro australiano.
Da parte sua, Canberra può contare su un alleato prestigioso come gli Stati Uniti. L’Australia è infatti un pilastro fondamentale per il dominio americano nel sud-est asiatico. “Un po’ un canarino nella miniera di carbone“, ha spiegato Jeffrey Wilson, direttore della ricerca presso il Perth USAsia Centre. “Dovremmo preoccuparci di quello che gli sta succedendo, perché poi potrebbe accadere a tutti”.
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