La guerra tra Russia e Ucraina ha accelerato una problematica di cui Usa e (soprattutto) Europa si stanno occupando già da tempo, rendendola però ancora più urgente. Non solo più dal punto di vista economico e ambientale, ma soprattutto geopolitico: parliamo infatti della dipendenza energetica che l’Occidente conserva nei confronti di Mosca. Ma questa è realmente superabile?
Il delicato tema è stato affrontato per ‘The Guardian’ da Jeffrey Frankel, professore alla Harvard University e già membro dei consiglieri economici di Bill Clinton ai tempi del suo mandato da presidente Usa. Ebbene, la premessa del professore è che l’Occidente non può scindere i due problemi. La sicurezza nazionale nelle politiche energetiche (messa a repentaglio dalla Russia) e l’obiettivo della riduzione dei danni ambientali sono infatti da valutare in contemporanea.
I primi settori su cui muoversi: carbone e petrolio
Riducendo le importazioni di combustibili fossili dalla Russia, l’Europa può adottare molte misure energetiche a beneficio dell’ambiente e contestualmente promuovere i suoi obiettivi geopolitici. La prima mossa dovrebbe essere quella di superare l’utilizzo massiccio del carbone ritirandone i sussidi. Serve poi una diversa regolamentazione sul gas naturale, che prescinda dalle importazioni da Mosca. In tal senso sono gli Usa a dover aiutare l’Europa, tramite il proprio gas naturale liquefatto. Il ricorso a questa soluzione negli Usa ha già ridotto le emissioni di anidride carbonica tra il 2007 e il 2012, ma una regolamentazione ancora più attenta può abbattere anche la quantità di metano rilasciata nell’atmosfera.
Riguardo al petrolio, invece, la ricetta di Frankel è diversa. Gli Usa dovrebbero infatti ridurre le sovvenzioni e disincentivare l’accesso ai territori in cui installare nuovi pozzi. A maggior ragione se il loro affitto avviene a tariffe inferiori a quelle di mercato. Fondamentale anche il ricorso alle scorte già esistenti, spesso utilizzate in passato per scopi politici. Joe Biden ha già dato l’esempio, immettendo nel mercato 180 milioni di barili dalla Strategic Petroleum Reserve. Una decisione senza precedenti, poi imitata dal Regno Unito e che potrebbe mettere in difficoltà la Russia se diventasse una strategia globale. Si parla infatti di 240 milioni di barili potenzialmente in circolazione nei prossimi sei mesi.
Una politica fiscale che colpisca la Russia (e non solo)
L’ultimo passo è di natura fiscale. La tendenza, infatti, è quella di un abbassamento delle tasse sui prodotti petroliferi al dettaglio (cioè, soprattutto, la benzina nei distributori). Il professore di Harvard ritiene però che, per quanto sia impopolare, la mossa che i governi dovrebbero adottare è quella di alzarle. Vero è che questo dapprincipio danneggerebbe i cittadini, che Europa e Usa stanno cercando di proteggere dall’aumento dei prezzi. Il risultato, però, è che così si mina l’incentivo dei conducenti a risparmiare sul consumo di carburante, a beneficio della Russia e a discapito dell’ambiente.
Accompagnata a un approccio opposto sulle fonti di energia rinnovabile, questa misura darebbe vita nel medio periodo a un crollo della domanda di idrocarburi. Che certamente danneggerebbe i guadagni di tutti gli esportatori di petrolio, senza distinzioni. Ma colpirebbe in maniera più severa alcuni “petrostati” che certamente attuano da tempo politiche tutt’altro che illuminate. E ciò comprende la Russia, e non solo.