Dinanzi ad alcune abitudini con le quali, secondo il vicepresidente della Camera di Deputati e l’Accademia Italiana della Crusca, si rischierebbe un’emarginazione della lingua italiana, si dovrebbe poter prendere provvedimenti verso chi nel nostro Paese, utilizza parole straniere in contesti non appropriati.
Fabio Rampelli trasforma l’idea in proposta di legge che, in difesa della lingua nazionale, prevede multe a chi non utilizza la stessa per le comunicazioni istituzionali, quindi negli uffici pubblici, nelle scuole e nelle università. Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, condivide ogni pensiero di Rampelli: “Vanno combattuti senza tentennamenti i casi, non rari, di emarginazione totale della lingua italiana, specialmente quando essa viene rimossa dall’alto, ad opera di italiani, e in Italia, non all’estero o ad opera di stranieri (gli italiani sono molto bravi nel farsi male da soli)”, “purtroppo gli esempi più evidenti di emarginazione totale e autoritaria dell’italiano si sono verificati e si verificano in un settore di primaria importanza e di grande peso qual è l’ambito universitario”.
“Nuove leggi sulla lingua italiana” per il presidente dell’Accademia della Crusca
Il linguista Marazzini si dichiara molto preoccupato per l’emarginazione totale della lingua italiana e condivide le sue convinzioni sul sito internet dell’Accademia Italiana. Nel suo intervento dal titolo Nuove leggi sull’italiano. Ma sono davvero “politica linguistica”?, ha parlato anche della proposta di legge di Fabio Rampelli.
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“Le polemiche – derivate dalla proposta di sanzionare chi utilizzi, in determinati contesti, parole non di lingua italiana – hanno fatto trascurare elementi interessanti e piuttosto nuovi, pur presenti nella legge, come la questione dei contratti di lavoro in lingua italiana, che meriterebbe di essere esaminata da esperti di diritto del lavoro, ma che a prima vista a me pare legittima e auspicabile. In un clima di globalizzazione e di forte presenza di multinazionali operanti in Italia, il vincolo del contratto di lavoro comunque redatto anche in italiano potrebbe essere una garanzia da non trascurare”, ha affermato Marazzini, che continua: “La partita vera si gioca nelle università. Sarebbe necessario distinguere nettamente l’introduzione di termini inglesi nell’uso comune quotidiano dei parlanti, dall’abuso di inglese nella comunicazione sociale pubblica delle istituzioni statali».
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Utilizzo improprio di lingue straniere soprattutto nelle università
Il linguista accusa: “Nella burocrazia universitaria l’uso dell’italiano è impedito nelle domande di finanziamento internazionale, nazionale, e molto spesso anche in sede locale. Le domande devono essere presentate tutte esclusivamente in inglese, pena la loro nullità. Se ne può trovare una parziale giustificare per le domande presentate a organi internazionali. Tuttavia anche per le domande di ricerca ‘nazionali’ la scelta dell’inglese in forma esclusiva è stata imposta negli ultimi anni, con le motivazioni più fantasiose, e persino invocando talora il principio che il giudizio di valutatori stranieri è sempre e sicuramente garanzia di imparzialità, indipendentemente dalla competenza e specificità, che invece per certe ricerche richiederebbe per forza anche la conoscenza dell’italiano. Reagendo a queste imposizioni prive di senso, abbiamo sempre sostenuto che non si tratta di eliminare l’inglese, ma allo stesso tempo non vi è ragione per eliminare l’italiano.”
“La soluzione delle due lingue coesistenti garantirebbe, come è stato per anni, la massima trasparenza, e soddisferebbe appieno le esigenze di circolazione internazionale, salvaguardando allo stesso tempo i legittimi diritti della lingua ufficiale. Tuttavia questa argomentazione, nella sua lineare logica apparentemente indiscutibile, non ha mai incontrato il favore del ministero, che non si è nemmeno degnato di discuterla con noi. Perché il ministero non prova mai a considerare una linea diversa di azione, o almeno non spiega in maniera comprensibile le ragioni della propria scelta?”.