Oggi, venerdì 5 novembre, esce su Netflix “Yara”, il film che racconta l’inchiesta sulla morte di Yara Gambirasio, la 13enne scomparsa nel nulla e ritrovata senza vita a cavallo fra il novembre 2010 e il febbraio 2011 a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. Il regista è Marco Tullio Giordana, che nella pellicola ricostruisce i passaggi della delicata inchiesta giudiziaria che ha portato alla condanna in via definitiva all’ergastolo del carpentiere Massimo Bossetti, ritenuto l’unico colpevole dell’omicidio.
La scomparsa e le ricerche di Yara Gambirasio
Tutto inizia il 26 novembre del 2010. È un venerdì pomeriggio e sono da poco passate le 17.30. Yara Gambirasio, 13 anni, giovane promessa della ginnastica ritmica si reca nel centro sportivo del suo paese per portare uno stereo in palestra. Il centro dista appena 700 metri dalla sua abitazione. Attorno alle 18.45 esce dalla palestra e s’incammina verso casa. Qui, però, non arriverà mai. La madre, non vedendola rientrare, cerca di contattarla, ma senza successo. Il telefono risulta spento.
La donna si rivolge dunque ai carabinieri e scattano le ricerche. In campo scendono centinaia di persone, fra forze dell’ordine, protezione civile e volontari. Il lunedì dopo la scomparsa arrivano a Brembate anche i cani molecolari che conducono i ricercatori al cantiere di un centro commerciale in costruzione poco distante, a Mapello. Qui gli inquirenti non trovano nulla, ma c’è una prima pista sulla scomparsa di Yara. Che porta a un muratore marocchino, in realtà del tutto estraneo alla vicenda.
L’uomo, bloccato su una nave in partenza per il Marocco per un’intercettazione tradotta male, finisce in cella. Dopo pochi giorni di carcere, però, torna in libertà ed esce dall’inchiesta. Così si torna al punto di partenza. Intanto, alla vigilia di Natale del 2010 i genitori di Yara, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese, rivolgono davanti alle telecamere di tutta Italia un disperato appello ai presunti rapitori della 13enne.
Il ritrovamento del corpo della 13enne
Le speranze, però, si spengono definitivamente a tre mesi esatti dalla scomparsa, il 26 febbraio 2011. Un appassionato di aeroplanini ritrova infatti in un campo incolto alla periferia di Chignolo d’Isola i resti del corpo di Yara. Prima dei funerali, viene disposta l’autopsia sulla salma della ragazzina. L’esame autoptico rivela che la 13enne ha dapprima subìto un violento colpo alla testa con un oggetto contundente e poi delle ferite da arma da taglio in diverse parti del corpo. Quando il suo assassino la abbandona nel campo, Yara è ancora viva e muore di stenti e di freddo.
Il ritrovamento sconvolge tutta Italia e le indagini subiscono un’accelerata. Sul corpo gli inquirenti isolano tracce di Dna, in particolare sugli slip della vittima vicino a una delle ferite. Si arriva così al profilo genetico di “Ignoto 1”, ritenuto il presunto killer. Nelle settimane successive le forze dell’ordine raccolgono migliaia di campioni genetici, fra cui quello di un tesserato di un club poco distante dal luogo del ritrovamento. Dalle analisi emerge che il Dna del ragazzo è molto simile a quello di “Ignoto 1”.
Il cerchio si allarga dunque ai suoi familiari, senza però trovare riscontri oggettivi. Si arriva perfino al confronto con quello di un autista della Val Seriana, Giuseppe Guerinoni, morto da oltre dieci anni. Gli investigatori stabiliscono che Guerinoni è il padre di “Ignoto 1”, ma il Dna di nessuno dei tre figli legittimi corrisponde con quello del presunto killer. Si deduce dunque che Guerinoni ha avuto un figlio illegittimo fuori dal matrimonio.
“Ignoto 1” e il Dna di Massimo Giuseppe Bossetti
Scavando nel passato dell’autista di Gorno, gli inquirenti arrivano a una donna, il cui Dna era già stato analizzato nel 2012. Ma c’era stato un errore. Ricontrollando i profili genetici, le forze dell’ordine appurano che si tratta della madre di “Ignoto 1” e passano dunque all’analisi del Dna dei suoi tre figli, nonostante la donna neghi di aver avuto una relazione con Guerinoni. Tra loro c’è anche Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, il cui Dna viene prelevato con un test dell’etilometro.
Il suo profilo corrisponde a quello del presunto omicida, che carabinieri e polizia prelevano da un cantiere di Seriate il 16 giugno 2014. Secondo gli inquirenti, oltre al Dna, alcuni elementi incastrano il carpentiere. Ad esempio ci sono le celle telefoniche agganciate dal suo cellulare nella zona di Mapello la sera della scomparsa di Yara; oltre al fatto che Bossetti racconta alle forze dell’ordine di essere stato tutto il giorno in cantiere, quando in realtà ha lavorato solo mezza giornata.
Le prove contro il carpentiere e il processo
Ci sono poi i filmati delle telecamere nella zona attorno alla palestra di Brembate, che riprendono il furgone di Bossetti girare più volte attorno al centro sportivo la sera del rapimento della 13enne. Il 3 luglio 2015 si apre il processo per il carpentiere davanti alla Corte d’Assise di Bergamo. Il palazzo di giustizia è blindatissimo e in aula si presentano anche alcuni sostenitori di Bossetti.
A rappresentare la pubblica accusa è la pm Letizia Ruggeri che, dopo quasi un anno di udienze, il 13 maggio 2016, chiede per l’imputato il massimo della pena previsto dal nostro ordinamento: l’ergastolo. La difesa punta il dito contro la “propaganda forcaiola” e invoca l’assoluzione per Bossetti; mentre le parti civili chiedono risarcimenti per oltre 3,2 milioni di euro.
Omicidio Yara Gambirasio, ergastolo per Bossetti
La sentenza di primo grado arriva alle 20.40 del 1° luglio 2016: Massimo Bossetti è condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. La Corte d’Appello di Brescia, il 18 luglio 2017, confermerà poi il verdetto anche in secondo grado. A mettere la parola “fine” su questa vicenda è la Corte di Cassazione che, il 12 ottobre 2018, dichiara “inammissibile” il ricorso dei legali di Bossetti e conferma in via definitiva la condanna al carcere a vita per il carpentiere.