Raffaele Cutolo era il carcerato più anziano in custodia al 41bis di Parma, ed è morto a 79 anni dopo una lunga malattia. Nato nel 1941 a Ottaviano, nell’area vesuviana a est rispetto alla città di Napoli, è stato una delle figure di riferimento della criminalità organizzata del Novecento italiano. Venendo addirittura raccontato, seppure indirettamente, in una immortale canzone (“Don Raffaè“) di Fabrizio De André. Di cui, per un’incredibile coincidenza, oggi ricorre l’anniversario della nascita.
La storia di Raffaele Cutolo: pericoloso ancora oggi
Raffaele Cutolo, che negli ambienti malavitosi era noto anche come ‘O Professore, ha avuto un peso enorme nell’esplosione della criminalità campana negli anni ’70. A lui si deve la fondazione della “Nuova Camorra Organizzata“, potentissima nel decennio più sanguinoso del Novecento italiano come in quello successivo. E la figura del boss fu centralissima, nonostante la sua detenzione nel carcere di Poggioreale a Napoli. Il capo dell’organizzazione, infatti, si era macchiato giovanissimo del suo primo omicidio: aveva appena 22 anni.
Malato da tempo e ormai anziano, “Don” Raffaele Cutolo continuava a rappresentare un enorme pericolo per la collettività. Nonostante negli ultimi tempi fosse stato frequentemente trasferito dal carcere al reparto ospedaliero, il tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva rimarcato come il boss fosse visto come un simbolo dalle generazioni di giovani camorristi: “Si può ritenere che la sua presenza potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco. Gruppi rispetto ai quali ha mantenuto pienamente il carisma“.
La camorra secondo De André: il “caso” Don Raffaè
Una figura talmente centrale nell’immaginario collettivo di fine Novecento che finì quasi inconsapevolmente all’interno di una canzone. Nel 1990, nel suo album ‘Le nuvole’, Fabrizio De André decise infatti di raccontare la vita delle carceri italiane. E in particolare le condizioni di apparente privilegio in cui trascorrevano la detenzione alcuni tra i più potenti galeotti. Il titolo del brano era “Don Raffaè“, e difficile era non cogliere riferimenti a Raffaele Cutolo. Tanto più che la vicenda che si raccontava era ambientata proprio a Poggioreale.
De André, che cantava in napoletano, si immedesimava nell’immaginario brigadiere Pasquale Cafiero. Uno stanco tutore della legge impegnato appunto nel carcere campano, dove in qualche modo cercava di conquistarsi la benevolenza di un detenuto particolarmente potente (che condivide il nome di battesimo con Raffaele Cutolo). Il rito del caffè insieme al criminale, un fitto scambio di consigli, l’immancabile sparata contro il sistema Paese (“Prima pagina, venti notizie, ventuno ingiustizie, e lo Stato che fa?“). E magari la possibilità di trovare famiglia alla prole (“Aggiungete mia figlia Innocenza, vuo’ ‘o marito, non tiene pazienza“) o un lavoro al fratello scapestrato. E infatti il brano si conclude, improvvisamente e quasi fatalmente, con queste parole: “A proposito tengo ‘nu frate che da quindici anni sta disoccupato. Che s’ha fatto cinquanta concorsi, novanta domande e duecento ricorsi. Voi che date conforto e lavoro, Eminenza, vi bacio e v’imploro. Chillo duorme co’ mamma e con me… Che crema d’Arabia ch’è chisto cafè!“.
Quando Raffaele Cutolo provò a farsi paroliere di De André
Un brano ovviamente di denuncia, ma che incredibilmente piacque moltissimo a Raffaele Cutolo in persona. Il boss, spiegò Mario Luzzatto Fegiz, provò addirittura a contattare De André per ringraziarlo e chiedergli di musicare alcune sue poesie. Cosa che ovviamente non successe, ma di fatto giunsero conferme che la vita carceraria non era poi così diversa rispetto a come l’aveva immaginata il genio autoriale del cantautore genovese. E anche di quanto il boss fosse pericoloso e, al contempo, si sentisse inattaccabile. Sebbene in prigione.