Sono passati 30 anni esatti dall’esplosivo che in via d’Amelio fece saltare in aria il procuratore Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta che erano con lui quella torrida domenica d’estate palermitana: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Di quella strage possiamo dire di sapere tanto, ma (purtroppo) anche poco.
Dal passato emergono frammenti di verità con molta fatica, inchiesta dopo inchiesta, processo dopo processo. La sentenza della Corte d’Assise di Caltanisetta lo definì nel 2017 “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. È la strage di mafia che più di ogni altra solo di mafia non è. È accertato che “soggetti inseriti negli apparati dello Stato” indussero il pupo Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni, già preconfezionate. Ed è anche accertato che, su invito del procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra, parteciparono alle indagini agenti dei servizi segreti. Servizi segreti guidati da quel Bruno Contrada che, qualche mese dopo, sarebbe stato arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. È accertato che l’obiettivo del massacro, Paolo Borsellino, non fu mai ascoltato dalla magistratura che investigava sulla strage di Capaci durante quei 57 giorni che separarono la sua uccisione da quella dell’amico Giovanni Falcone.
L’ultima verità giudiziaria è stata scritta nelle 377 pagine i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta motivano la sentenza emessa il 15 novembre 2019. Ergastolo per i boss Tutino e Madonia, 10 anni per calunnia i falsi pentiti Andriotta e Pulci. Bo, Mattei e Ribaudo, membri della squadra mobile della polizia di Palermo guidata da Arnaldo La Barbera, erano stati accusati di calunnia con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Per i primi due, Ie accuse sono cadute in prescrizione; Ribaudo è stato assolto in Cassazione. I magistrati non credono che Borsellino fu ucciso per la Trattativa. “Non può condividersi l’assunto difensivo” secondo cui la Trattativa Stato-mafia avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano”.
Indagini complesse, con un pezzo dello Stato che cerca la verità su quel “mosaico che nel suo complesso continua a rimanere in ombra in alcune sue parti”, e un altro pezzo dello Stato che quella verità ha cercato e cerca ancora di nasconderla. Sospetti che ci dirigono sempre là: agli uomini delle istituzioni. Talpe e suggeritori, inchieste pilotate e avvelenatori di pozzi, pentiti improbabili e “pupi vestiti”, magistrati e poliziotti smemorati o distratti. Sono passati quasi tre decenni da via D’Amelio. Ma, dopo lo sbugiardamento di falsi testi e clamorose revisioni di processi, i cosiddetti “mandanti altri” rimangono sempre nell’ombra.
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