Il professor Massimo Galli è guarito dal Covid-19. E, per sua ammissione, ciò è stato possibile anche grazie a una cura con anticorpi monoclonali somministrata in ospedale. Lo ha raccontato lo stesso Galli, 70 anni, ex primario di Malattie infettive al Sacco di Milano oggi in pensione, in un’intervista al Corriere della Sera.
Galli ha tenuto a precisare che la cura con i monoclonali gli è stata consigliata “visti i miei fattori di rischio”. Poi ha affermato che ci tiene a sottolinearlo “perché qualcuno ha avuto il cattivo gusto di tirare fuori la questione prima che la comunicassi io (come volevo fare) e inventando che sarebbero state le cure domiciliari e non le tre dosi a farmi stare meglio”.
“Se non avessi avuto le tre dosi sarei stato un candidato perfetto per un’evoluzione negativa della malattia e per il ricovero”, ha chiosato. Insomma, la protezione offerta dalle tre dosi del vaccino ha garantito uno sviluppo non grave dell’infezione; mentre la terapia ospedaliera con gli anticorpi monoclonali si è resa necessaria per via del quadro clinico del paziente.
Eppure le cure con i monoclonali sono state a lungo considerate come “terapie di serie B”, indicando il vaccino come unica arma contro il virus. Ma ciò vale anche per i pazienti che rischiano di sviluppare la malattia in forma grave? La risposta probabilmente è negativa, come dimostra il caso del professor Galli.
Ciononostante, l’Italia sembra ancora restia a utilizzare questo tipo di trattamenti. Lo si evince dall’ultimo monitoraggio settimanale dell’Aifa sugli anticorpi monoclonali per la cura del Covid-19 in Italia. Di quelli autorizzati (casirivimab-imdevimab, regdanvimab, sotrovimab e bamlanivimab-etesevimab), sebbene le scorte siano ingenti, le Regioni ne hanno prescritte poco più di 32mila dosi da inizio aprile allo scorso 4 gennaio.
Ricordiamo che la somministrazione può avvenire solo in ospedale e che le dosi sono distribuite dalla struttura commissariale. Curioso il caso della Lombardia, la regione più popolosa d’Italia e fra le più duramente colpite dalla pandemia, addirittura quarta per prescrizioni con 2.571. Di fatto, meno della metà di quelle che a ottobre ha fornito al Dipartimento di Protezione civile per inviarle in Romania.
Una (parziale) risposta sullo scarso utilizzo potrebbe essere la recente introduzione dei primi farmaci antivirali per la cura della malattia. Una soluzione decisiva secondo l’immunologo Mario Clerici, direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi. All’Adnkronos Salute, infatti, ha dichiarato che “contro la variante Omicron abbiamo perso molta dell’efficacia dell’arma rappresentata dagli anticorpi monoclonali”.
Il motivo? “Ne funziona solo uno da quello che emerge dagli studi. Se questa variante si diffonde come sta facendo, quell’arma lì la perdiamo. Ed è ancora più importante avere a disposizione le pillole antivirali (…) Sappiamo che funzionano e che sono la terapia che nel lungo termine fa la differenza”, ha concluso Clerici, docente di Immunologia all’Università degli Studi di Milano.
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