Covid e guerra in Ucraina: il fil rouge che unisce il racconto dei due drammi

La guerra in Ucraina e la pandemia da Covid-19, per quanto possano sembrarci distanti tra loro, hanno diversi elementi in comune nel racconto che i media tradizionali quotidianamente hanno svolto (e stanno svolgendo). Del resto, stiamo parlando di due immani tragedie che stanno caratterizzando negativamente l’inizio di questi anni ’20 del 2000. Le conseguenze che i drammi hanno portato a livello mondiale sono state disastrose. Sia dal punto di vista delle vite umane perdute, sia da quello economico-sociale. E allora qual è il comune denominatore tra le narrazioni sui giornali e sulle televisioni che unisce il marzo 2020 e il marzo 2022? Potremmo sintetizzare in 10 punti la linea di continuità tra i due eventi devastanti.

Il teatro di “guerra” e la crisi economica dettata dalle chiusure

Innanzitutto, a colpire sono sicuramente il linguaggio e le immagini che accomunano le due vicende. All’epoca dell’esplosione del Coronavirus si parlava in continuazione di essere in “guerra”. Guerra contro un nemico invisibile, come il Covid. Ma pur sempre guerra. E le scene che due anni fa esatti si presentavano sotto i nostri occhi non sono poi così dissimili da quelle che ci giungono ora dall’Ucraina. Strade deserte per via del lockdown (o coprifuoco), code agli ospedali e (adesso) anche code alle frontiere, scaffali vuoti nei supermercati, aumento del prezzo della benzina, crollo delle borse, illuminazione pubblica e riscaldamento ridotti per risparmiare.

Frutto anche di una chiusura forzata e prolungata di molte aziende, che prima hanno dovuto imporre la serrata ai propri lavori a causa del Covid e ora sono costrette a chiudere per via dell’aumento dei prezzi delle materie prime. La differenza notevole riguarda il “sonoro”. Se da una parte c’era un silenzio assordante, interrotto solo dalle sirene delle ambulanze, in terra ucraina sono purtroppo i tanti bombardamenti a farla da padrone.

Il bollettino sui positivi, sui morti e sui profughi ucraini

In uno scenario come quello drammaticamente delineato dalla guerra, risultano purtroppo rilevanti i bollettini che vengono quotidianamente diramati dai rispettivi fronti. Nella primavera del 2020 l’allora capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, si presentava puntualmente alle ore 18 davanti a microfoni e telecamere per esporre in conferenza stampa il numero dei nuovi positivi, dei ricoverati e dei morti per Covid.

Un responso numerico criticato da più parti. Non soltanto per via della freddezza che caratterizzava la spiegazione di quell’elenco, ma anche perché sembrava dettare una forma di spettacolarizzazione (macabra) davanti a tutti i media italiani, che seguivano in diretta da Roma quello che stava capitando in pieno lockdown. Oggi, pur non esistendo ufficialmente una figura istituzionale che ricopra un ruolo simile a quello svolto da Borrelli (e nonostante alcuni numeri non siano sempre verificabili) ogni giorno vengono pubblicati i dati sul numero dei feriti e morti, tra militari e civili, nella guerra in Ucraina. Difficile, allo stesso tempo, sarebbe invece fare un’analogia tra Giuseppe Conte e Volodymyr Zelenski come numero di apparizioni televisive e social (quasi) quotidiane.

Covid e guerra in Ucraina: generalizzazioni e luoghi comuni folli sui cittadini cinesi e su quelli russi

Probabilmente la seguente potrebbe anche risultare come una generalizzazione non suffragata da dei dati fatto. Ma, soprattutto nelle fasi iniziali delle due rispettive emergenze, i cittadini comuni di origine cinese e russa che s’incontravano per strada venivano percepiti in maniera molto sospetta dagli italiani. I primi perché considerati sostanzialmente degli “untori”, i secondi perché dei pericolosi “guerrafondai”.

Insomma: non era colpa delle istituzioni mediche che rispondevano a Pechino se il SARS-CoV-2 è dilagato fuori da Wuhan, così come non è colpa adesso di Putin se rischiamo di piombare nella terza guerra mondiale. No, le responsabilità sono da addebitare a TUTTI gli abitanti di quei due Paesi. Illogica conseguenza di una paura che si era inevitabilmente scatenata nel momento in cui si era compresa la gravità della situazione. E di certo i media (perlomeno all’inizio) non hanno aiutato a contribuire a un clima sereno in questo senso.

Come si è comportata l’Ue nelle due emergenze

Dal punto di vista economico, l’Occidente si trova davanti al secondo choc (o cigno nero) nel giro di due anni. Quando non era stato ancora nominato presidente del Consiglio, Mario Draghi scrisse un articolo sul Financial Times. Sosteneva che la pandemia ci costringeva a un cambio di paradigmi. Parlava apertamente di “guerre che si finanziano con il debito pubblico”. Introducendo di fatto il contesto ideologico in cui poi è piombato qualche mese dopo il Next Generation Eu e poi, per l’Italia, il Pnrr.

Se oggi il dibattito italiano è ancora una volta incentrato sullo scostamento di bilancio, quello europeo è puntato nuovamente sulla sospensione del patto di stabilità. Tema già caro nel periodo pre-Covid. Nel frattempo, come due anni fa, l’Ue è riuscita a rimediare ad alcuni suoi errori di valutazione in ambito internazionale tramite alcune successive politiche comuni di emergenza e solidarietà (Next Generation Eu e investimento sui vaccini da una parte, sanzioni e accoglienza dei profughi dall’altra). Basterà?

Politica italiana: le lotte intestine ai partiti tra il Covid e la guerra in Ucraina

Già, perché se in Europa sta ancora oggi proseguendo un certo senso di responsabilità istituzionale solidarietà diffusa tra i vari stati membri per aiutare Zelenski e tutti i suoi concittadini (e chissà quanto durerà), in Italia sembra che tutto questo sia già terminato. Esattamente come accadde 24 mesi fa, lo stop alle polemiche incrociate che i vari partiti politici promettevano di perseguire, in ragione di un comune obiettivo di salvaguardia dei nostri interessi comuni, è durato pochissimo.

E questa volta (se possibile) risulta anche essere più “grave” rispetto al 2020, perché adesso si ritrovano tutti al governo (Meloni esclusa). Le accuse reciproche su chi aveva strizzato più l’occhio a Xi Jinping sono uguali identiche a quelle riguardanti la vicinanza a Putin. I vari distinguo sul taglio delle accise della benzina e sull’aumento delle spese militari hanno fatto sì che la tanto declamata unità nazionale sia ancora una volta rimasta solo a parole. Tuttavia, il tema rimane: in futuro, bisognerà investire più in Sanità o in Difesa?

Giornali e tg monopolizzati dalle due tragedie

E veniamo al contenuto dei media veri e propri. Non sarà sfuggito a nessuno che dal 24 febbraio scorso il tema della guerra in Ucraina abbia monopolizzato completamente le pagine dei quotidiani nazionali e i servizi di tutti i telegiornali. Esattamente come accadde nel febbraio-marzo 2020 con il SARS-CoV-2. Ormai si fa fatica a discutere un tema che non sia anche solo indirettamente legato all’invasione voluta da Putin. Persino lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock è stato paragonato, da qualche buontempone, a quello ricevuto (decisamente molto più aggressivo) da Zelensky da parte dello ‘zar’.

Il fulmineo turnover dei palinsesti televisivi ha visto uscire di colpo i virologi a tutto vantaggio di esperti (ora veri e ora presunti) di geopolitica. Di punto in bianco sono scomparsi (o poco ci manca) i vari Galli, Crisanti, Pregliasco e Bassetti, in sostituzione di Massolo, Magri, Caracciolo e Fabbri. Il Covid è pressoché scomparso dai media, che prima ne parlavano troppo e ora troppo poco.

Talk show: lo scontro tra esperti “ottimisti” e “gufi”

A proposito di talk show, gli esperti della guerra in Ucraina di oggi si suddividono esattamente a quelli del Covid di ieri. Da una parte abbiamo gli “ottimisti”. Quelli che sono convinti che il conflitto stia praticamente in procinto di terminare dopo la fase massima di escalation dei giorni scorsi (due anni fa si sarebbe parlato di “picco”). Dall’altra abbiamo i “gufi”. Coloro i quali ritengono che la situazione internazionale sia ancora lontana da una sua naturale conclusione. Una ‘babele’ di voci che, spesso, genera confusione tra i telespettatori.

Non solo. Perché, adesso come due anni fa, si discute ancora sul fatto se sia giusto o meno ospitare in televisione delle persone che hanno delle opinioni diverse (se non addirittura opposte) rispetto al mainstream originale: che siano No Vax e/o No Green Pass oppure che siano pro-Putin. È proprio di questi giorni la polemica sul fatto di ospitare il professor Alessandro Orsini, criticato per alcune sue posizioni ritenute (non del tutto correttamente) vicine eccessivamente al presidente russo.

Fake news e complotti: dalle bare di Bergamo all’ospedale di Mariupol

Immancabili, purtroppo, sono anche i tanti complottisti che imperversano tra i social ma anche in qualche studio televisivo. Da “il Covid non esiste” a “questa guerra è finta”. Tra le teorie più assurde (e più odiose) che circolavano allora c’era quella riguardante il fatto che le bare di Bergamo, trasportate dai carri armati dell’Esercito la notte del 18 marzo, fossero tutte vuote a quello secondo il quale le donne incinte uscite dall’ospedale pediatrico di Mariupol, bombardato, fossero tutte attrici.

Anzi: quel nosocomio, in realtà, è stato trasformato in un oggetto militare dai radicali ed era una base dei soldati ucraini. Dal sangue finto ai cadaveri che si muovono passando per i fucili di cartone, passando per la presenza (smentita) di Steven Seagal tra le truppe russe, sono tante le fake news costruite sui social per sminuire il conflitto tra Russia e Ucraina.

Covid e guerra in Ucraina: la gestione dei vaccini e l’integrazione dei profughi ucraini

Che cosa succederà dopo le primissime fasi dell’emergenza? La domanda che ci si poneva nel 2020 a proposito del Covid, in particolar modo sulla distribuzione dei vaccini, si ripropone tale e quale adesso in occasione della guerra in Ucraina parlando della futura integrazione dei profughi. Proseguirà questa fase di solidarietà? La percezione nei confronti dei rifugiati adesso è certamente molto positiva.

Tuttavia, come ci aveva riferito Antonio Ricci, vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, se lasciassimo gli ucraini al di fuori del sistema di accoglienza, senza quindi fissa dimora e non accompagnati da percorsi di integrazione, allora cambierebbe l’approccio. Alla solidarietà seguirà lo scontento. “Nascerà un atteggiamento di rifiuto. Una volta che un profugo vorrà cercare lavoro in Italia, dovrà esserci accompagnamento che sia sociale e sostanziale. L’accoglienza, accompagnata dall’integrazione, deve guidare all’autonomia.

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