Nascondersi dietro alla goliardia non aiuta a salvarsi dal licenziamento disciplinare in caso di allusioni a sfondo sessuale rivolte alle colleghe. Lo ha stabilito nei giorni scorsi una sentenza della Corte di Cassazione diffusa dallo Studio Cataldi. Una decisione che conferma quanto già stabilito in precedenza dal Tribunale di Arezzo e dalla Corte d’Appello di Firenze, che avevano ritenuto corretta la scelta di licenziare un dipendente di un bar in seguito a una serie di allusioni verbali e fisiche a sfondo sessuale rivolte a una giovane neoassunta con contratto a termine assegnata a mansioni di barista.
La goliardia non è una scusa
In passato simili comportamenti sono stati più volte giustificati parlando di scherzi, ma stavolta i giudici della Corte di Cassazione hanno deciso di non tollerare questa scusa. Hanno definito l’atteggiamento del dipendente “indesiderato e oggettivamente idoneo a ledere e a violare la dignità della collega di lavoro”.
Il fatto che “fosse assente la volontà offensiva e che in generale il clima dei rapporti tra tutti i colleghi fosse spesso scherzoso e goliardico” non ha salvato in alcun modo l’autore dei comportamenti molesti.
Il tentativo di minimizzare le allusioni sessuali
Nel suo ricorso il dipendente aveva provato a dipingere la collega come inattendibile, sulla base della scelta del gip di archiviare una sua denuncia di violenze sessuali e stalking. La Cassazione ha confermato l’estraneità di quest’ultimo reato ai fatti che avevano portato al licenziamento, ma ha aggiunto che l’archiviazione della violenza era dovuta alla tardività della querela e non a ragioni di merito. Con una denuncia più tempestiva sarebbe stato possibile procedere.
L’ex dipendente aveva anche invocato l’inidoneità delle allusioni a ledere la dignità della collega. La Cassazione ha dichiarato che la Corte d’Appello ha agito correttamente, attenendosi alla definizione di molestie sancita dalla legge. “E ha dunque considerato le molestie come quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”, si legge nella sentenza. La decisione conferma che le molestie possono essere tali anche senza sfociare in aggressioni fisiche.
Il precedente del 2020
In passato la Corte di Cassazione si era già espressa su dei casi simili. In una sentenza risalente al 2020, per esempio, aveva confermato la condanna di un anno e 7 mesi di reclusione inflitta dalla Corte d’Appello di Bologna a un imputato che aveva fatto delle allusioni sessuali a due stagiste assunte da poco nell’azienda in cui lavorava. In quel caso però si erano verificati dei comportamenti ancora più gravi, riconducibili alla sfera della violenza sessuale. L’uomo, infatti, aveva trascinato all’interno di un camerino uno delle due ragazze, dov’era rimasto da solo con lei per qualche secondo. In un’altra occasione aveva palpeggiato i glutei e l’interno coscia delle colleghe. Secondo l’articolo 609-bis del codice penale “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione fino a 12 anni”.
La Cassazione aveva comunque attribuito una grande rilevanza penale anche alle allusioni sessuali, più volte minimizzate dall’imputato. L’uomo, per esempio, aveva posto alle stagiste domande molto personali, come “che taglia di reggiseno avete?”. I giudici avevano elevato questi atteggiamenti al rango di molestie nei confronti delle vittime.