I Pirenei, ieri in versione uggiosa con punte di autunno pieno, hanno regalato di nuovo rock and roll sulle loro ascese. Adam Yates (voto 5,5) non ce l’ha fatta a reggere il colpo anche sul Marie-Blanque: la sua corsa in giallo si è chiusa ieri. La maglia griffata Credit Lyonnais è passata sulle spalle di Primoz Roglic (voto 9), primo indiziato alla vigilia del Tour de France per condurla a Parigi. Meglio ieri che sabato, l’ex saltatore di sci: voleva anche il successo di tappa, ma intanto si è accontentato della botte piena, nell’attesa della coniuge ubriaca. La vittoria parziale se l’è presa di prepotenza uno straripante Tadej Pogacar (voto 10+): un tripudio totale per la Slovenia. Il virgulto della UAE è davvero corridore coi fiocchi: dovesse tenere questo vigore nell’ultima settimana, sarà difficile non vederlo sul podio dei Campi Elisi. Chapeau.
Roglic, il capitano della Jumbo al Tour de France
Dicevamo di Roglic: il capitano della Jumbo ormai è lui. I gialloneri hanno definitivamente deciso di votare alla causa dello sloveno anche Tom Dumoulin (voto 6,5), l’altra “punta” designata. Lui stesso ha confermato e accettato la decisione, quanto di buon grado non si è capito. Detta papale papale: mettere uno capace di vincere un Giro d’Italia e di salire sul podio al Tour e alla Vuelta a fare il portaborracce, è una roba che non si può vedere. E se Roglic dovesse avere un problema? In casa Jumbo (voto 5 a questo approccio tattico), nel limite del possibile, dovevano tenere ancora in graduatoria anche la farfalla olandese.
Passiamo oltre. Bravo lo svizzero Hirschi (voto 8): l’appuntamento con la vittoria è solo rimandato. Egan Bernal (voto 7), il detentore della Grande Boucle, ieri ha dato segnali perentori. Non è quello di un anno fa, ma punta a tornarci sulle Alpi e sui Vosgi. Montagne che attendono scorribande anche da Mikel Landa (voto 8): il basco ieri è parso pimpante e volitivo, mani basse sul manubrio e pedalata sciolta. Il Tour de France è duro quest’anno, e lui può andare a nozze. Meno bene Martin (voto 6, ma è terzo in classifica) e Quintana (6, più frizzante sabato). Meglio Porte (voto 7): il tasmaniano, neo-papà, in salita va che è un amore. Reggono Bardet e Uran (voto 6 a entrambi), dei big il peggiore ieri è stato Lopez (voto 5), che al traguardo si è ritrovato circa un minuto sul groppone.
Le note dolenti alla Grande Boucle
E veniamo alle note dolenti: quelle di casa nostra. Nella giornata ieri è andato in scena il Golgota di Fabio Aru. Dopo una prima ora di corsa a quasi 50 all’ora di media, il cavaliere dei quattro mori ha perso contatto dal gruppo, scivolando via via sempre più indietro. Una crisi estrema, quasi esagerata: a un certo punto, staccato di 12-13 minuti, è rimasto affiancato solo dalla voiture balai, il furgone che storicamente raccoglie chi dice basta in fondo alla carovana.
A circa metà tappa, la resa. In diretta Rai Beppe Saronni, testimonial della UAE e grande fautore a fine 2017 del passaggio di Aru col team degli Emirati, ci è andato con la mazzafionda. Secondo l’ex iridato del 1982, lo staff tecnico non doveva portare Aru al Tour, e lo stesso corridore avrebbe dovuto rispettare la squadra rinunciando, vista la sua pessima condizione. Saronni ha rincarato la dose facendo calare la mannaia sull’approccio di Aru, incapace di reagire di fronte alle difficoltà e vittima di palesi limiti caratteriali.
Se ne sono dette tante su Aru, e tante se ne diranno. Lui a caldo ha difeso la sua professionalità, sostenendo di non meritare giornate come quella di ieri. E’ evidente però che questo ragazzo ormai trentenne si è infilato in un buco nero dal quale sarà complicato riemergere. Negli ultimi tre anni ha inanellato un errore dietro l’altro. A volte non direttamente suoi, ma molto spesso sì. Non ultimo quello di intignarsi nel voler correre il Tour de France ad ogni costo: la “cotta” ferragostana al Lombardia avrebbe dovuto farlo desistere. Perché fissarsi, sapendo che la UAE si giocava il Tour con Pogacar?
E ancora: Aru difende il lavoro che fa da tre anni per preparare i grandi giri, che però è palesemente fallace: lo hanno capito anche i tubolari della sua bici ormai. Perché continuare con questi estenuanti ritiri in altura, e presentarsi ai grandi appuntamenti con pochissimi chilometri di corsa vera nelle gambe? Anche prima del Tour, si è preparato da solo al Sestriere: inutilmente. Qualcuno deve togliergli dalla calotta cranica queste road map assurde.
A sua discolpa, va anche detto però che il papà di tutti gli errori è stato proprio quel contratto folle fatto firmare al ragazzo tre anni or sono. Il 2015 mirabile di Aru, con la vittoria alla Vuelta e il secondo posto al Giro, ha fatto pensare a troppi (Saronni incluso) di essere di fronte se non a un Merckx, almeno a un nuovo Nibali. Il contratto da 3 milioni abbondanti l’anno con la UAE, è stato il masso che ha schiacciato il sardo sotto attese e pressioni troppo grandi per lui. Risultato: Aru non vince dal 2017, quando era in maglia Astana. Un disastro.
Che fare ora? Difficile a dirsi. Da troppo tempo quest’uomo, dotato di spiccata sensibilità, prende sganassoni tremendi dal suo lavoro. A fine anno quel contratto malefico scadrà, e non si sa chi vorrà investire su un corridore che da un triennio non ne imbrocca una. Tra le squadre World Tour potrebbero non arrivare offerte. E passare da essere tra i 3-4 ciclisti più pagati al mondo a un team Professional o Continental, è una retrocessione pesante. Di certo, è escluso poterlo vedere di nuovo lottare per un Giro o un Tour de France. Ora come ora, c’è da capire più che altro se lo rivedremo lottare e basta.