Alle Paralimpiadi di Tokyo partecipano 4.403 atleti da tutto il mondo. Ognuno di loro porta con sé una diversa forma di disabilità e per questo ha bisogno di essere incluso nella categoria giusta. Queste categorie sono equilibrate? E secondo quali criteri vengono formate? Ma soprattutto: si basano su simili menomazioni o su menomazioni che portano a risultati simili?
Domande lecite, che in molti si pongono osservando le competizioni che in questi giorni stanno andando in scena nel Paese del Sol Levante. Quesiti su cui si interroga anche l’Associated Press, che in questo articolo cerca di approfondire le tante disparità emerse dalla classificazione di alcuni atleti, alcuni dei quali risultano più avvantaggiati di altri già in partenza.
“Il problema con la classificazione è che se uno si trova in fondo alla classifica non è contento”, dice all’Ap Heinrich Popow, vincitore di due medaglie d’oro nell’atletica leggera, oggi ritirato. “Gli atleti paralimpici vogliono sempre avere la classificazione migliore”. Il principio di fondo è lo stesso delle Olimpiadi. Ci sono sport in cui alcuni atleti normodotati hanno dei vantaggi rispetto ad altri. Allo stesso modo succede per gli atleti con disabilità. Dipende, infatti, dal tipo di disabilità.
Alle Paralimpiadi i partecipanti sono divisi in dieci diversi gruppi a seconda delle menomazioni e ogni sport si adatta di conseguenza. Di questi, otto includono menomazioni fisiche; mentre gli altri due sono per i deficit visivi e mentali. Ognuno include tipologie di disabilità a diversa eziologia, che secondo il Comitato paralimpico internazionale hanno però un profilo funzionale che ne permette il confronto sportivo. Secondo alcuni atleti, comunque, le categorie non sono sempre eque.
“Se pensiamo di nuotare o correre con gli stessi tempi degli altri, ci sentiamo bene in quella categoria – continua Popow –. Ma se diamo il massimo e non riusciamo nemmeno a qualificarci o a passare i vari turni, allora ci si lamenta”. Come riporta l’Ap, Il Cpi ha avviato la revisione periodica del sistema di classificazione per i Giochi paralimpici. Cambiamenti a questo sistema, però, non arriveranno prima della fine delle prossime Paralimpiadi, quelle di Parigi 2024. A confermarlo è stato il portavoce Craig Spence.
Gli atleti, comunque, ritengono giusto che siano suddivisi in classi a seconda delle disabilità. Il problema riguarda la ratio che le determina. Lo stesso Popow sostiene che nemmeno gli atleti hanno compreso il funzionamento del sistema. Men che meno spettatori e tifosi. “Ma gli atleti hanno diritto a lamentarsi”, dice all’Ap Tea Cisic, chinesiologa a capo del sistema di classificazione del Comitato paralimpico. “Possono dire di non essere contenti della classe in cui si trovano e così si avvia il processo di revisione”, chiarisce.
Le perplessità (e le critiche) maggiori riguardano la classificazione degli atleti che hanno subìto la perdita di una ‘funzione’ piuttosto che di un arto o di coloro che hanno delle deformazioni fisiche. Come ad esempio chi ha lesioni alla colonna vertebrale, spina bifida o paralisi cerebrali. Le polemiche riguardano anche le disabilità più difficili da individuare.
Secondo Popow le Paralimpiadi sono dunque arrivate a un bivio. Da un lato la volontà di rendere la competizione più agonistica; dall’altro quello di renderla uno spot motivazionale per la società. Se si dovesse percorrere la prima strada, ovviamente, si andrebbe incontro a gare più difficili, livelli e standard più alti. E quindi a maggiore esclusione sociale.
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