Ore 10:56 di una pigra e assolata domenica di metà autunno. Uno di quei giorni dedicati allo sport da milioni di fan di tutta Italia e di tutto il mondo. Un giorno di festa, che improvvisamente cambia colore e si trasforma in uno dei giorni più neri e indelebili nella memoria collettiva di tutti. Indipendentemente dalla propria passione per la MotoGP, le due ruote e in generale lo sport. Perché quella domenica era il 23 ottobre del 2011, esattamente dieci anni fa. E quella fu l’ora in cui il cuore di Marco Simoncelli smise di battere.
Quel 2011 era l’anno della verità per il Sic, finalmente competitivo e soprattutto costante in una MotoGP con cui l’impatto non era stato facile. Specie per uno come lui, velocissimo, determinato e soprattutto coraggioso. Fin troppo, dato che nei mesi precedenti era stato anche criticato dagli spagnoli Pedrosa e Lorenzo. Ma Marco Simoncelli a Sepang sentiva che sarebbe stata una domenica diversa dalle altre. Più di Montmelò e Assen, dove aveva strappato la pole position. Più di Phillip Island, la domenica precedente rispetto a quel terribile 23 ottobre. Quando si era preso un secondo posto che sarebbe rimasto il suo massimo risultato in MotoGP.
“Sono arrivato a Kuala Lumpur, oggi mi sto un po’ riposando. C’ho voglia di scendere in pista. Ho voglia di ritornare sulla moto, qui in Malesia nei test sono andato molto forte quest’anno. Penso si possa fare molto bene. Proveremo a salire sul podio, magari a questo giro sul gradino centrale“, raccontò sereno dalla sua stanza d’albergo in un video poi pubblicato sui suoi social. Quello che Marco Simoncelli non sapeva, e non sapeva nessuno di noi, è che quelle parole sarebbero coincise con il suo saluto al mondo terreno.
“C’ho voglia“. Questa la parola chiave. Una voglia indomita, di dimostrare al mondo intero e soprattutto a se stesso di essere quella macchina da vittorie che il trionfo mondiale in Classe 250 aveva fatto intuire nel 2008. Ma la caparbietà, il coraggio, la voglia appunto, tradirono Marco Simoncelli in occasione dell’ultimo errore della sua carriera. Banale, di per sé. Ma divenuto fatale anche a causa del tentativo disperato di Sic di non perdere quella gara.
Il tutto si compì al secondo giro di Sepang. Il Sic era quarto, all’inseguimento di Stoner, Pedrosa e Dovizioso. Nel giro precedente era arrivato anche l’ultima ripresa in mondovisione dal suo casco. Più dietro, settimo e ottavo, battagliavano Colin Edwards e un Valentino Rossi nel pieno della sua personale battaglia con un’indomabile Ducati. E proprio sui due si stavano concentrando le telecamere quando, all’improvviso, alla curva 11 comparve una moto impazzita. Quella di Marco Simoncelli.
La sua Honda del Team Gresini infatti tagliò la strada in perpendicolare, finendo tragicamente sotto la Yamaha Tech 3 di Edwards e la Desmosedici di Rossi. Le urla dei telecronisti di tutto il mondo subito fecero capire che la faccenda era seria. Le riprese seguirono la corsa del ‘Dottore’, rimasto in sella alla Ducati. Quando si allargarono, però, fu impossibile non notare che Marco Simoncelli era riverso a centro pista, sdraiato senza più il casco a coprire la sua inconfondibile chioma.
La realtà emerse dopo. Il texano lo aveva colpito sulle spalle, l’amico Valentino addirittura sul collo sradicandogli il casco. Marco Simoncelli fu intubato con un trauma interno con versamento e soprattutto la frattura delle vertebre cervicali. La sua battaglia per sopravvivere fu drammaticamente breve, mentre il mondo guardava e riguardava le immagini dell’incredibile incidente. La verità è che il Sic era andato largo, in una maniera che solitamente si conclude con un ruzzolone laterale. Spettacolare, ma sicuro. E invece rimase aggrappato alla sua moto, nel tentativo di riprenderne il controllo. La sua Honda era quasi caduta, ma in maniera inspiegabile le ruote ripresero aderenza schizzando di nuovo in pista.
Se si fosse arreso al ritiro, forse il Sic ce l’avrebbe fatta. Sarebbe caduto, si sarebbe infuriato, ma sarebbe tornato ai box sulle sue gambe. Ma la voglia era troppa. Troppa la determinazione. Troppa la caparbietà. Una voglia di vincere che, per Marco Simoncelli, ha rappresentato l’ultimo atto della vita terrena.
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