Nel giro di 48 ore e un pugno di tweet e comunicati stampa, la Superlega è naufragata. Il tentato colpo di mano carbonaro della “dirty dozen”, la ormai nota “sporca dozzina”, si è liquefatto come neve al sole. Lasciando sul selciato frattaglie di dirigenze e un “Danubio” di retorica. Vittima in primis di un timing fallace, di una comunicazione carnevalesca e di protagonisti passati in un amen da manager più o meno autorevoli a personaggi di operetta. Una Waterloo politica, mediatica, sportiva e reputazionale. Per le 12 “major” doveva essere la scialuppa di salvataggio dopo mesi di stadi vuoti e anni di bilanci color rosso fuoco. Per nove su dieci tra tifosi, appassionati, analisti, allenatori, team manager, giornalisti, parrucconi da sofà televisivo e via dicendo, è stato solo un disdicevole tentativo di golpe. Un attentato dinamitardo allo sport più popolare al mondo. Non pervenuto il grosso dei giocatori, ma non è una novità.
Quindi, tutto finito? La Superlega è destinata alla voce “epic fail” nei libri di storia del pallone? O può ripresentarsi come cosa seria, dopo essersi palesata come farsa? Il vulnus provocato da quella tremenda due giorni, inutile negarlo, è grande. Ceferin, nocchiero lisergico dell’Uefa, solo ad udire il sostantivo “Superleague” ancora digrigna i denti. Perez vaneggia come un pugile suonato. Agnelli raccoglie i cocci di una credibilità ormai disintegrata. Opinionisti e attacca-pipponi vari, di fronte allo scampato pericolo, sorridono e gongolano a favore di microfoni, mettendosi in bocca frasi senza senso sui sogni dei bambini, paragoni squinternati tra calcio e basket, menate assurde sul “calcio della gente”. Eppure, i problemi di questo sport sono tutti ancora lì, appesi e in bella vista. E se è della gente, questo calcio, è perché chiamiamo tifosi quelli che ormai sono irreversibilmente dei consumatori. E al di là delle melense sparate valoriali, è su quel consumo che il baraccone si regge.
Ed è tutta incentrata sul “tifoso-consumatore” la Super Champions Uefa, che taglierà il nastro nel 2024. Una kermessona con 36 squadre a girone unico, con dieci partite di regular season stabilite “random” sul modello svizzero (chiamato così perché gli elvetici nell’800 lo applicarono agli scacchi): di certo non un’ode alla meritocrazia. Le prime 8 si qualificano direttamente agli ottavi, mentre le successive 16 vengono accoppiate per dei playoff ad andata e ritorno che decreteranno gli 8 posti rimanenti della fase finale. Le ultime 12 vengono eliminate.
Attenzione: dei quattro slot in più rispetto a oggi, due verranno assegnati con wild card (per ora: c’è già chi preme per aumentarli). Se un Real, un Liverpool o una Juventus dovessero arrivare quinti, sesti o decimi in campionato, potranno pacificamente avere il “pass” grazie al coefficiente Uefa. Le partite raddoppieranno rispetto all’attuale Champions “slim”: ce ne saranno 225. Più big match, più soldi dalle tv: ripartiti come però non si è capito. Se proprio si va a fondo, questa Super Champions non è nient’altro che un generico della Superlega che volevano i Perez e gli Agnelli. La strada, quindi, è tracciata o quasi.
Anche la Super Champions come la Superlega creerà poi una matassa da districare: l’ingorgo dei calendari. Con una regular season da dieci partite, fino a Natale si giocherà ogni settimana in coppa. Con buona pace dei giocatori, che da anni chiedono meno gare e più selezionate per preservare spettacolo, ginocchia e adduttori. Pertanto, netta selezione naturale: la competizione sarà sempre più roba per rose da 30 o più giocatori. Quindi sempre per quelle 12-15 potenziali fisse della Superlega. Le altre ridotte tutte a comparsa, felici di farsi maciullare (le sorprese ci saranno ancora, ma sempre più rare) in cambio dell’ospitata del Barcellona o dello United. Tutto chiaro no? La Superlega quindi non è poi così morta. E’ in freezer, o per meglio dire in modalità aereo, come in molti hanno detto. Ed è pronta negli anni a venire a tornare viva e a lottare insieme a noi.
La verità è che il sistema pallone resta un mastodonte insostenibile. Economicamente e sportivamente. Due terzi di quei dodici top club hanno debiti da far invidia a quelli di piccoli di Stati. Fifa e Uefa sono organismi elefantiaci e votati alla stasi. Il Fair Play finanziario, creatura ormai dodicenne voluta da Platini, si è rivelato macchiettistico e inutile. I meccanismi spalma-debiti, vedi quello italiano, hanno creato un molossoide che si morde continuamente la coda. E non è minimamente pensabile che una di queste major del pallone possa fallire: senza quelle dodici, il prodotto non si può vendere ogni anno a cifre più alte, anzi. Di salary cap, vero strumento necessario per perseguire l’obiettivo dell’equilibrio competitivo, non si parla quasi mai. O lo si fa in modo surreale: l’incidenza degli stipendi sui bilanci delle società è ormai indecente.
Che arrivi la Super Champions o la Superlega, i campionati nazionali sono da snellire a 18, forse anche a 16 squadre. In serie A da troppi anni ci sono otto squadre su venti che alla terza di ritorno non hanno più nulla da chiedere alla loro classifica. Tranquille in chiave salvezza, fuori gioco per le coppe europee, si trascinano stancamente per un quadrimestre. Eppure, un restyling dei campionati non viene neanche preso in considerazione. E anche su stadi di proprietà, valorizzazione dei giovani e tutela degli investimenti, ci sono da rivedere un milione di cose. Perché non ci si potrà nascondere per sempre tirando fuori “la favola dell’Atalanta” (che Dio l’abbia in gloria): il calcio odierno è tanto altro, e anche di quel tanto altro bisognerà occuparsi.
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