Giornata empia, quella di ieri, sulle strade del Giro d’Italia. La corsa rosa, dopo 111 anni di vita, non meritava uno sfregio simile. In una stagione tribolata come questa, tenuta insieme con lo sputo in soli tre mesi e mezzo quando tra marzo e luglio non si è potuto nemmeno punzonare una bicicletta, beh, tutto ci si poteva aspettare tranne uno scempio come quello visto ieri a Morbegno. Spiace anche per la cittadina della bassa Valtellina, destinata a rimanere legata a una delle giornate più meste della storia rosa. Soprattutto, però, addolora l’atteggiamento dei corridori, che si sono macchiati della peggior colpa per chi fa il loro mestiere: rifiutarsi di correre. Il Giro che ha visto la tormenta di neve sul Bondone con Gaul nel 1956, che ha superato la bufera sul Gavia del 1988, che ha vissuto in un secolo abbondante decine e decine di tappe segnate da vento forte, pioggia tambureggiante e freddo polare, ieri si è arreso alla mestizia di un plotone che ha sbagliato tutto ciò che c’era da sbagliare.
Viene da andare indietro di decenni. Un po’ di temporale e 13 gradi di temperatura: vi immaginate Bartali o Coppi imbastire uno sciopero per queste condizioni meteo? Oppure Magni e Nencini? O Merckx e Gimondi? Scenari davvero da film fantasy. Così, della giornata infausta di ieri e dello stanco arrivo ad Asti, ci rimarranno la grinta e le incazzature di Alessandra De Stefano e Silvio Martinello (voto 10). Entrambi impegnati, la prima in tv e il secondo in radio, ad utilizzare come pungiball lo spaesato e invertebrato Cristian Salvato, presidente dell’associazione ciclisti professionisti del Belpaese. Tra un imbarazzo e un balbettio, il rammollito Salvato ha farfugliato di una decisione presa la sera prima su una chat Telegram. Un resoconto farsesco. Una circostanza che neanche per lo stop a un calcetto del mercoledì tra compagni di classe di quinta ginnasio sarebbe credibile.
Accorciare una corsa per preservare la sicurezza dei corridori è sacrosanto. Ieri però le condizioni per correre c’erano tutte. Che la tappa fosse lunga 258 km (senza mezzo metro di salita, ribadiamolo), lo si sapeva dall’autunno 2019. Inoltre, che sarebbe arrivato il maltempo, lo si sapeva con certezza da almeno tre giorni. Che da maggio il Giro sarebbe stato spostato a ottobre, con tutto ciò che ne consegue, era noto ad ogni diesse e corridore da mesi. Quindi il colpo di scure sulla tappa non sta né in cielo né in terra. Che poi, diciamolo: se ci fosse fermati tutte le volte che la temperatura in questo Giro è scesa sotto i 13 gradi, la corsa non avrebbe superato neanche l’Etna il terzo giorno.
Mauro Vegni (voto 8 si solidarietà) ha peccato di troppo buonismo al mattino. Doveva puntare i piedi, a costo di partire con un drappello sparuto. È vero che se poi fosse successo qualcosa coi corridori in sella controvoglia lo avrebbero crocifisso, ma è altrettanto vero che l’infausto rifiuto dei corridori di ieri rappresenta un precedente gravissimo in prospettiva. Aggravato, oltretutto, dall’omertà: a stamane, ancora non si è capito quale o quali corridori abbiano animato questa infausta protesta. Si è puntato il dito sul veterano Adam Hansen, delegato Cpa, ma la sua squadra (la Lotto Soudal) è stata tra le prime a prendere le distanze dallo scellerato sciopero. Per il resto, nessuno ha rivendicato la scelta, tra un Vincenzo Nibali che la sera cadeva dal pero e altri che hanno ribadito già dal mattino di non saperne nulla. Ha rivendicato la decisione di partire da Vigevano la maglia rosa Wilco Kelderman (voto 4), così come Gianni Bugno ha difeso la decisione del plotone dai microfoni Rai. Non benissimo.
L’unica via qui è voltare pagina. Oggi Sestriere: si decide questo Giro d’Italia falcidiato da situazioni paradossali. Almeno domani speriamo che non scioperi il buon senso. Poi si apriranno le riflessioni da domenica sera, perché una giornata come quella di ieri il ciclismo professionistico deve sforzarsi di non replicarla mai più. Troppo brutta per essere vera.
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