Un calciatore, certo. Ma Ezio Vendrame, che si è spento a 72 anni stroncato da un tumore, è stato molto, molto di più. Talentuoso centrocampista che nella serie A degli anni ’70 fu protagonista soprattutto con la maglia del Lanerossi Vicenza prima di una opaca esperienza al Napoli, a fine carriera divenne un maestro di calcio per tanti bambini. Ma soprattutto uno scrittore, un poeta. Un intellettuale, insomma: figlio del decennio più stimolante, controverso e socialmente tumultuoso del dopoguerra italiano. Un decennio in cui però fin troppo spesso chi giocava a calcio era come protetto da una sorta di campana di vetro.
La sua storia era degna di un romanzo, sin dai primissimi anni di vita. Nato a Casarsa della Delizia, da qualche parte in provincia di Pordenone in mezzo alle risorgive, Ezio trascorse l’infanzia in orfanotrofio (non perché fosse orfano, ma perché i genitori non avevano i mezzi economici per mantenerlo). Quindi entrò nelle giovanili dell’Udinese appena tredicenne.
Sia in bianconero che poi alla SPAL anticipò non solo il tipo di calciatore che sarebbe stato, ma anche il clima che in Italia si sarebbe respirato qualche tempo dopo: sessantottino prima del ’68, divenne amato e odiato da tutti coloro che ebbero modo di lavorare con lui. Sempre gli stessi i motivi: un talento innato, accompagnato però dalla voglia di far discutere, essere contro il conformismo, ribellarsi al sistema. Quando parlare di “sistema” ancora aveva senso.
Quasi infinita la schiera degli aneddoti che lo riguardano, perfettamente riassunti dal titolo della sua autobiografia: “Se mi mandi in tribuna godo”. Basti pensare che una volta, in serie C con il Padova, Vendrame seminò il panico in una sonnolenta partita contro la capolista Cremonese (destinata a uno 0-0 che non infastidiva nessuno) dribblando palla al piede tutti i calciatori che si trovò lungo il cammino: peccato che non fossero i suoi avversari, ma i compagni di squadra. Giunto a pochi centimetri da un clamoroso autogol, quindi, si girò dall’altra parte e ripeté l’operazione puntando verso la porta giusta.
“George Best” italiano, ma senza calici di champagne e miss Mondo al seguito, Ezio fece in tempo a giocare tre anni a Vicenza tra il 1971 e il 1974 per diventare eterno idolo biancorosso. Il culmine della carriera l’anno dopo, oltre che una sintesi perfetta della sua parabola: un mito della Lanerossi come Luis Vinicio, nel frattempo divenuto allenatore del Napoli, fece carte false per portarlo alle pendici del Vesuvio. L’affare si concretizzò, ma il tecnico brasiliano malsopportò le intemperanze di Vendrame facendolo giocare appena tre volte.
Da lì un lento riavvicinarsi verso casa: Padova (come detto), poi l’Audace di San Michele Extra, il Pordenone, la Juniors Casarsa. E altri interessi che presero il sopravvento: la chitarra, la scrittura, la vita nelle campagne della sua infanzia. Un’infanzia che gli era stata strappata e che Vendrame si riprese regalando qualcosa in cambio: il suo ultimo appiglio con il calcio rimase infatti proprio a beneficio dei bambini, cui insegnò come destreggiarsi al pallone fino ai primi vagiti del nuovo millennio.
Magari non piegandosi a certe dinamiche divenute via via sempre più comuni, e limitandosi a dare calci dicendo alla stampa: “La palla è rotonda, daremo il massimo, siamo tutti con il mister”. Perché a volte si gode di più facendosi mandare in tribuna. Insegnando qualcosa, magari, a chi ti circonda.
Parola di chi disse “Preferisco giocare a calcio piuttosto che fare il calciatore”. Buon viaggio, Ezio.
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