Ripartire, sì ma, dove? Storpiando l’immarcescibile “Maracaibo” di Lu’ Colombo, ci addentriamo in uno dei dibattiti più forsennati che da mane a sera raggiunge le claustrofobiche quarantene italiche. Tra un esercizietto ginnico “spizzato” su Youtube e un ovale di pasta lievita pronto a diventare Capricciosa “homemade”, da almeno venti giorni assistiamo a questo tourbillon di note ufficiali e scenari astrali, indiscrezioni e farneticazioni, vulgate e puttanate. Il calcio va rimesso in moto o no?
In una metà campo i latrati di chi parte con l’olimpiade dello sdegno, alla sola idea di rivedere Cr7 e compagnia in calzoni e parastinchi. “Far ripartire la serie AAAAA? Sarebbero queste le priorità? Signora mia, dove andremo a finire?”. Nell’altra, la gara di arrampicata sugli specchi dei fondamentalisti del calcio d’inizio che, da Gravina in giù, ogni giorno ne inventano una pur di rimettere il carrozzone calcio se non in carreggiata, beh, almeno sulla banchina. “Tamponi a frotte! A tutti, da Lukaku al quarto magazziniere della Spal! Troppo caldo? Cinque sostituzioni! Lombardia a rischio? Tutti sotto la linea del Po! Ah, pure l’Emilia non se la passa un granché? Allora più giù, passiamo il Rubicone!”. La corale supera ogni immaginazione: manca solo la proposta di separare con barriere di plexiglass la fascia destra dal centrocampo. E a sua volta il centrocampo dalla fascia sinistra, onde evitare mischie e assembramenti.
Proviamo a uscire dal ping-pong delle ipocrisie. Impresa stoica, in giornate dove sui social è tutto un pullulare di novelli virologi, economistoni e problem solver. Lo sport nel Belpaese mette il pane tra i denti a un milione di persone (se allarghiamo all’indotto, scolliniamo oltre i tre milioni). E in questo alveare, il calcio è l’ape regina. Il traino indispensabile, piaccia o meno. Pertanto il lockdown pallonaro non può essere procrastinato a data da destinarsi: tante verginelle lo pensano, ma è una convinzione miope. E se ci si sbraccia per scongiurare la condanna a morte del nostro Pil, non si può fare gli gnorri sul fatto che il calcio è parte succulenta di esso.
Fin qui il calcio “movimento”. Poi c’è il dorato attico della serie A, che in questo momento ha tre problemini che si chiamano Uefa, televisioni e ricorsi. La prima non sente ragioni: chi si ferma verrà escluso dalle coppe, dannato ed esposto al pubblico ludibrio internazionale. Forse persino in ginocchio sui ceci. Le seconde, è noto, sono la pompa di quattrini che fa carburare la macigno-mobile del pallone. Sky e Dazn devono ancora sborsare la terza tranche da 300 milioni e rotti: senza i lilleri ‘un si lallera, direbbero in Toscana di fronte a due dita di Chianti. I terzi, beh, sono l’ineluttabilità di chi verrà scippato di qualcosa. Un esempio per tutti: il Benevento griffato Inzaghi, che ha (o meglio, aveva) un piede e tre quarti in A.
Dunque: basta spedire tutti in ritiro e comprimere il calendario come un wurstel sottovuoto? Certo che no. Il dottor Rezza ha parlato chiarissimo: inutile fare road map finché il Paese resta chiuso in casa ad impastare muffin. In più, nella volontà di ripartire, il calcio procede in mondo confusionario. E’ un carro allegorico che ognuno vuole portare in una direzione diversa (Malagò è luciferino, ma non si sbaglia di troppo). Inoltre, in questa baraonda nessuno sa rispondere a quesiti cruciali. Dove si giocherà, visto che i club già piagnucolano? (Citofonare Inter e Milan, che non vogliono schiodare da San Siro). Quali le misure di sicurezza imprescindibili? E se un tesserato verrà trovato positivo? Mini-quarantene e contro-tampone come se fosse antani? Quale la linea rossa temporale che non si potrà varcare? Ferragosto? Metà settembre? La fine della vendemmia?
Se il baraccone vorrà riaprire, dovrà dare risposta a queste e ad altre millemila domande. E magari iniziare ad approntare una lenta discesa da quel piedistallo sul quale non può più stare. Insomma, fare della ripartenza un accadimento terapeutico, non un accanimento. Magari solo per evitare il buco sull’albo d’oro.