Atalanta ko, ma l’exploit è ripetibile? Ecco le mosse fatte e da fare

Minuto 89:35, Estádio da Luz di Lisbona. Questo il minuto e il secondo esatti della zampata di Marquinhos, quella che ha fatto capire a tutti gli appassionati di calcio, i tifosi e forse addirittura i calciatori che l’Atalanta non sarebbe entrata in semifinale di Champions League. Una semifinale accarezzata per oltre un’ora di gioco (quella trascorsa dal vantaggio nerazzurro, realizzato al 27′ da Pasalic) e sfumata dopo un primo tempo arrembante, un secondo in trincea e un finale con la lingua per terra.

C’è grandissimo dispiacere, perché si è arrivati a un centimetro“, sono le parole con cui è stato raccontato il triplice fischio finale. Quello della fine della cavalcata. E la sensazione che sia mancato il proverbiale centesimo per fare la lira. Ancora una volta, per il terzo anno su tre dell’EuroDea griffata Gasperini. E una domanda che sorge spontanea, anzi due. Quale dettaglio è veramente mancato? E soprattutto: quello che stava vivendo fino al minuto 89:30 del quarto di finale contro il PSG è il punto più alto nella storia dell’Atalanta o in un futuro prossimo ce ne saranno di simili, o addirittura di più alti?

Atalanta: cosa manca e cosa è mancato

Partiamo dai dettagli, e da una partita che nel suo sviluppo ha riassunto una discreta fetta delle avventure continentali dei nerazzurri. Un primo tempo con tante occasioni create e non sfruttate (Papu Gomez sul pronti via, Hateboer per la prodezza di Navas, Djimsiti e De Roon per imprecisione). Ma anche con praterie concesse ad avversari ben più blasonati, con il castello che di riffa o di raffa rimane in piedi. Poi il vantaggio di Pasalic, il primo gol europeo post lockdown dell’Atalanta sostanzialmente identico all’ultimo pre lockdown, nella fase conclusiva dell’azione. Guardare il poker di Ilicic a Valencia per credere.

Sintomo di schemi ormai talmente introiettati dalla squadra da venire anche da soli, pure sfruttando qualche fortunato rimpallo. Peccato che il disco abbia propagato una musica già sentita anche in seguito. Quella paura di non farcela, che l’Atalanta non prova spesso e che quindi gestisce male. Quella che costò l’eliminazione contro il Copenhagen, avversario ampiamente alla portata di quella Dea. Ma soprattutto quella vissuta nel 2018 negli ultimi venti minuti di entrambe le sfide contro il formidabile Borussia Dortmund. Con due vittorie tramutatesi in una sconfitta e un pareggio.

Quella coperta costantemente corta

Qui è più facile dare un nome e un cognome, o quantomeno un ruolo, al dettaglio mancante. Anche allora, in particolare nel ritorno di Reggio Emilia, un’Atalanta generosissima e con le risorse psicofisiche in evidente via di esaurimento si riscoprì con la coperta corta. Serviva massa a centrocampo, e in panca mancava una pedina fondamentale: Kurtic. Eroe dello storico quarto posto dell’anno prima, ma non più essenziale, era stato inopinatamente venduto alla Spal nel gennaio di quell’anno. E nella trincea finale contro gli scatenati gialloneri avrebbe dato l’ossigeno e il fosforo che il duo Petagna-Cornelius, mandati allo sbaraglio in contemporanea all’88’ non furono in grado di garantire.

La storia si è sostanzialmente ripetuta con il Psg. Freuler e De Roon, la Maginot in salsa orobica, hanno speso fino all’ultima oncia di energie. Nel finale per loro sarebbe stato salvifico l’aiuto di Tameze, che però non è più nerazzurro. Gasperini si è quindi dovuto affidare all’imberbe Da Riva, al ballo delle debuttanti nella partita più importante della storia dell’Atalanta. Ulteriore riprova che a centrocampo è fondamentale qualche ricambio in più.

L’occasione di una vita. O no?

E quindi la domanda capitale: un’occasione del genere arriverà mai più? Quesito scomodo: il 2019-2020 aveva regalato un allineamento dei pianeti piuttosto generoso. Dalla contemporanea presenza nel girone di una Dinamo Zagabria e uno Shakhtar Donetsk con velleità di reciproca autodistruzione. Poi agli ottavi un Valencia allo sbando. Quindi ai quarti un PSG pesantemente incerottato. Difficile immaginare qualcosa di simile. Ma occhio a dare l’Atalanta per finita.

Un errore che già in tanti hanno commesso in passato. Il quarto posto del 2017 sembrava una primizia irripetibile, specie dopo le partenze all’unisono di Conti, Gagliardini e Kessié (più uno Spinazzola inizialmente separato in casa). Arrivarono gli sconosciuti Gosens e Castagne, e furono lanciati Hateboer e Cristante, poco più che scommesse. In silenzio arrivò anche l’oscuro Palomino, e prese piede un Djimsiti già più volte bocciato nelle precedenti esperienze italiane (anche all’Atalanta). Partito Cristante, ecco un Pasalic da ricostruire. E l’anno dopo l’emergente Malinovskyi.

Atalanta: i traguardi come trampolini

Il risultato furono un settimo posto in Serie A, e due terzi. Nel 2019 con un colpo di reni finale, nel 2020 addirittura sognando a lungo la seconda posizione. L’Atalanta ha quindi saputo usare i traguardi come nuovi trampolini, con una programmazione tecnica e aziendale che la rende un progetto ancora in ascesa. Tanto più che il mercato in entrata è sempre stato estremamente funzionale alle esigenze di Gasperini, perfettamente comprese da Sartori e Marino. Certo, ora per crescere ancora occorre qualche rotazione in più in ruoli nevralgici come quelli dei due mediani. Operazione compiuta quest’anno per l’attacco, con Muriel che ha fatto la differenza da una stagione all’altra.

Poi non è detto che le circostanze di questa particolarissima stagione possano ripetersi. L’Atalanta ha però già dimostrato a se stessa di essere in grado di coglierle. E di essersi trasformata da piccola ambiziosa, e che studia da grande, a grande a tutti gli effetti. Con la volontà di non smettere affatto di studiare.

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