“E’ bastato un piccolo fiammifero, per far divampare l’incendio”. Scorre sulle note dell’incantevole Present Tense, pezzo griffato dai Pearl Jam nel 1996, il poetico finale di The Last Dance su Netflix. Un prodotto televisivo che sta polverizzando ogni record di fruizione, e si candida a stravolgere per sempre il genere del biopic. Sportivo e non. Materiale accantonato per due decenni tra gli acari, è stato rimestato e mixato per dar vita a otto ore e quaranta minuti di puro trasporto. In un ping-pong continuo tra quel cavalleresco e malinconico 1998, anno appunto dell’ultima danza, e squarci sul passato: mirabili, certo, ma talvolta tormentati.
Attenzione però: non la si può chiamare docu-serie. Così come non può essere bollinato come prodotto giornalistico tout court, perché non lo è. Più semplicemente, è l’affresco audiovisivo (dirompente) di un’ossessione. Nel bene e nel male. L’ossessione della più grande icona della storia dello sport, che si è andata ad incontrare (e molto spesso a scontrare) con altre ossessioni.
Bisogna essere onesti: la narrazione parte già avvantaggiata dal soggetto. Che oltre a personaggi sin troppo marcati (tutti: principali e secondari), porta in seno tantissime componenti essenziali degli intrecci cinematografici. A partire da quella epica del successo, certo. Gli ingredienti però sono tanti: il dramma, il duello, l’onore e la violenza (fisica e psichica) Oltre allo script classico dell’addio, del dolore dopo l’addio (assassinio di papà James Jordan), e del ritorno tambureggiante.
Quando hai il più grande giocatore di basket di tutti tempi (His Airness), che finisce nella scuderia del general manager più illuminato di tutti i tempi (Krause), che a sua volta trova il coach più grande di tutti i tempi (Jackson), e dal cilindro pesca poi il “secondo violino” più forte di tutti i tempi (Pippen) e il rimbalzista più efficace di tutti i tempi (Rodman), e uno dei migliori top players europei di tutti i tempi (Kukoc), beh, il dado è tratto. Il tutto con personalità complementari: l’umorale Krause ad incastrarsi con gli approcci “Zen” di Jackson, e il satrapo Jordan controbilanciato dal ragionevole e posato Scottie. I Chicago Bulls degli anni ’90 sono stati e rimarranno qualcosa di irreplicabile, a qualsiasi livello e in tutti gli sport. Sono un “film” già di loro, senza bisogno di alcun effetto speciale.
Quindi nei dieci episodi è tutta vera gloria? Per chi i fatti li conosceva già, è chiaro che la diegesi filmica appare bucherellata di lacune e omissis. Non poteva essere diversamente, avendo avuto Micheal Jordan l’ultima parola su ogni dittongo della sceneggiatura e diritto di veto su qualsivoglia frame del montato finale. Prova ne sono i vari commenti al vetriolo, persino nel cast. Come quelli di Horace Grant, fatto passare per infamone ai tempi dello spiazzante “The Jordan rules” di Sam Smith, bestseller che rimestò nel torbido (e di torbido, effettivamente, ce n’era) dei Bulls dei primissimi ’90. Jerry Krause, scomparso tre anni fa, ne esce come un intrattabile schizoide, e molto poco per quel genio che in realtà fu. Tanto che, in camera di compensazione, proprio colui che Krause imbrigliò in un miserrimo contratto settennale, vale a dire Pippen (stipendio farsesco per il suo valore), ha concesso al defunto l’onore delle armi a serie trasmessa. Indicandolo come il numero uno assoluto dei GM Nba. E’ poi un convitato di pietra (per scelta voluta) Craig Hodges, cecchino cruciale nei primi due titoli dell’epopea Bulls, che in “illo tempore” parlò di festini con droga e gentil donzelle e fu emarginato non solo dai Bulls, ma dall’intera Lega. Insomma: si poteva andare più a fondo? Certo, che sì. Nella sfera jordaniana e non solo.
Dall’altro lato, però, se Jordan non ce la dice proprio tutta, ci fa fare parecchi passi nel labirinto della sua ossessione. La forza dirompente di “The last dance” è lì. La scena dadaista del delirante gioco con le monetine, che vede MJ impegnato in un duello rusticano col folkloristico agente della security John Wozniak, ci dà un faceto assaggio della sua competitività morbosa. E ci addentra anche nelle opacità del Jordan scommettitore incallito, stuzzicato da tutto ciò che è azzardo e abbastanza incline allo sperpero illimitato di quattrini. Questo lato, contrapposto all’altro da superstar, macchina piscia-soldi e uomo simbolo di Nike, si dischiude con prepotenza. Non tutti, avvezzi al basket e non, ne avevano piena contezza.
Emerge poi in modo netto il Jordan vendicativo. Quello che si incazza anche solo a sentirsi accostato a un giocatore formidabile come Drexler. O che le giura a Reggie Miller o Bryon Russell, troppo garibaldini al cospetto della sua grandezza. Il caso più eclatante è forse quello di Labradford Smith, uno dei tanti peones della Nba dell’epoca. La malcapitata guardia dei Washington Bullets che paga carissima la battuta “Bella partita, Mike”, dopo decine di tiri sbagliati dal dominus, e viene travolto dalla sua furia agonistica. C’è poi la questione Isiah Thomas. E quell’ascia di guerra che, a 29 anni da quel “non saluto” dei Pistons nella prima finale di conference vinta dai Bulls, Jordan non ha nessuna intenzione di seppellire.
Si palesa, e tantissimo, il Jordan aguzzino dei suoi compagni. Negli scorci dell’ultima trionfale stagionale, diventa l’incubo del povero bonaccione Scott Burrell. Si abbandona a un inatteso turpiloquio il mite Will Perdue, pedina del supporting cast del primo three-peat: “E’ stato uno stronzo e un cretino e ha oltrepassato il limite diverse volte”. Per non parlare di Kukoc, che passa per le forche caudine del bullismo jordaniano prima ancora di sbarcare negli Usa, ai tempi dei Giochi di Barcellona del 1992. E pure dopo, quando già è un asset fondamentale del gioco dei Bulls. Jordan si autoassolve dicendo di non aver chiesto mai a nessun compagno di fare cose che lui non facesse, ma la sua attitudine alla tirannia nello spogliatoio viene raccontata senza troppi ammennicoli.
E’ tratteggiato benissimo, in più, il Jordan “stanco”. Chi era adolescente nei ’90, ha conficcata in mente l’idealizzazione di un animale da parquet pronto ad azzannare alla giugulare ogni avversario per poi vincere sempre. Nelle VHS “culto” dell’epoca, da “Come fly with me” ad “Airtime”, passando per “Learning to fly”, Jordan sembra quasi un supereroe infallibile della Marvel. Qui, invece, la spossatezza mentale e la difficoltà nel gestire il culto della propria persona che lo attanagliarono nel ’93, ma anche poi alla fine della seconda corsa del ’98, affiorano senza filtri. Ed è un dettaglio di non poco conto.
Insomma, “The Last Dance” in profondità ci va. I flashback sulle “vite degli altri” (cioè tutto ciò che non è Jordan) sono splendidi. L’universo folle di Dennis Rodman, il personaggio forse più spontaneo e autentico della storia della Nba, è dipanato in maniera spettacolare. C’è poi il mini-omaggio a Bryant. E ci sono picchi di pathos impareggiabili, costruiti ad hoc, grazie a questa camera 8 millimetri che si insinua ovunque.
Possiamo trovare tutti i difetti che vogliamo, ma rimarrà nell’iperuranio della serialità cinematografica. Perché è una serie pensata più per sognare che per sapere.
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