Hellbound, la recensione completa del nuovo fenomeno K-Drama

La paura della morte, quella dell’essere esposti pubblicamente, il conforto della religione portato al suo estremo. È un mix di tutti questi elementi ‘Hellbound’, la nuova serie sudcoreana disponibile su Netflix dal 19 novembre. Il regista è quel Yeon Sang-ho “padre” di ‘Train to Busan’, film del 2016 che racconta la diffusione di un virus che trasforma le persone in zombie, costringendo le autorità della Corea del Sud a disporre un lockdown generale e a introdurre la legge marziale. Col senno di poi, un film già visto, o meglio “vissuto”, verrebbe da dire.

Hellbound, la recensione della serie Netflix

I mostri e la morte, cruenta, sono i due principali elementi che si ritrovano anche nella trama di Hellbound. Le sei puntate della serie parlano infatti di tre mostri terrificanti che uccidono gli uomini sulla pubblica piazza e con violenze molto scenografiche, ad esempio scaraventando le persone su ogni tipo di superficie. Infine, finiscono le vittime bruciandole dall’interno e riducendole in cenere. Tutte le morti sono preannunciate da un “angelo della morte”, che anticipa alle vittime le coordinate del decesso con un “decreto”. Prima dell’esecuzione, il messaggero della morte annuncia anche che questi finiranno all’inferno.

Il sacro e il profano: dalla fede al fanatismo

Qui entra in gioco il fattore religioso. I membri di una setta paracristiana – la Nuova Verità –, presieduta da Jung Jinsu, ritengono infatti che i mostri attacchino soltanto i peccatori. E la religione diventa presto fanatismo, e violenza. Perché dal clima di terrore diffuso nasce Punta di Freccia, gang di adolescenti armati di mazze da baseball che dà la caccia ai condannati a morte. Sotto questo aspetto si nota il parallelismo fra gli zombie di Train to Busan e la rabbia cieca (nata da diffidenza e paura) che trasforma le persone in mostri. Altri mostri, oltre a quelli infernali.

L’ultimo successo del mondo del K-Drama

Alla trama principale si legano poi le sottotrame relative al profilo psicologico ed emotivo di alcuni personaggi, anche se solo accennato. Un aspetto simile a quello del film Premio Oscar ‘Parasite’, altro fenomeno del K-Drama. Ma anche uno dei “prodotti” di consumo che sta contribuendo a rendere la Corea del Sud un modello per il futuro. Sul piano dell’influenza culturale, ma anche su quello tecnologico. In Hellbound il livello d’introspezione dei protagonisti è minore rispetto a Squid Game, che conta tre episodi in più. Ma forse anche perché destinata a un approfondimento in una seconda stagione?

Non chiamatelo horror: il mix di generi e stili

L’aspetto psicologico è più sul piano della collettività. Yeon Sang-ho, co-autore della sceneggiatura con Choi Gyu-seok, tende infatti ad analizzare più gli effetti che la paura, combinata con la frenesia dei media, genera sulle persone. Da un punto di vista tecnico, tutto ciò si traduce in un ritmo che cresce di puntata in puntana, ma che ha bisogno di tempo per “carburare”. Alla fine, comunque, Hellbound piace perché non è ascrivibile a un unico genere. I tanti elementi che lo compongono e la narrazione degli omicidi lo rendono infatti un prodotto complesso: una fusione fra aspetto umano e divino; un mix unico di generi e stili differenti, nato per catalizzare un pubblico ampio. Ed ecco il motivo del successo planetario.

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