“Tutta la carica di Cesare Pavese gravitava sull’opera, su ciò che dell’esperienza esistenziale e conoscitiva si fa opera compiuta. E’ sulle opere che dobbiamo riportare il fuoco della nostra lente, soprattutto su quelle che portano il segno di Pavese più completo e maturo.
I nove romanzi brevi di Pavese costituiscono il ciclo narrativo più denso e drammatico e omogeneo dell’Italia d’oggi. Il più ricco sul piano della rappresentazione degli ambienti sociali, della Commedia Umana e della cronaca di una società.”
Queste le parole di Italo Calvino su Cesare Pavese, in una intervista del 1960 di Carlo Bo su Europa. Difficile rendersi conto di quanto sia stato fondamentale per il Novecento un personaggio come Cesare Pavese. Lo stesso Calvino dirà che “la via di Pavese” si è esaurita con la sua morte, che nessuno riuscirà a prenderne l’eredita. Ma sarà in un certo senso proprio Calvino stesso che dichiarerà di sentire pesante l’eredità dello scrittore piemontese, soprattutto in alcune sue opere come “Il sentiero dei nidi di ragno.”
Nato il 9 Settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, comune nel Cuneese, Pavese crebbe in una famiglia agiata che viveva nelle Langhe. Dopo gli studi classici, si iscrisse alla facoltà di Lettere di Torino, continuando a scrivere e a studiare con grande fervore l’inglese. Durante gli studi universitari coltivò la passione per la letteratura americana, seguendo autori come Whitman e Hemingway. Con il passare del tempo si cementificarono anche le amicizie con gli intellettuali del tempo come Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi. Da qui cominciò la collaborazione con la casa editrice Einaudi. Con produzioni letterarie, traduzioni e tanto altro.
La sua produzione più ricca risale al periodo compreso tra 1936 e 1949. Durante la guerra Cesare Pavese si rifugiò a casa della sorella, nel Monferrato. A questi anni risalì il primo tentativo di suicidio quando, dopo essere tornato in Piemonte, scoprì che la donna di cui era perdutamente innamorato si era sposata. Finita la guerra, Pavese iniziò a collaborare con “L’Unità”, dove conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi, divenendo, da quel momento, uno dei suoi più stimati collaboratori.
In un estratto del suo diario emerge la frustrazione dalla quale era circondato. “Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe. Ma dove sono le impressioni del ’45-’46? Il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire.”
In quel periodo conobbe l’attrice Constance Dowling. Tra illusioni e momenti di esaltazione, sempre ossessionato dal rincorrerla, follemente innamorato, arrivò quella tragica notte dell’agosto 1950. Cesare Pavese si lanciò da un albergo di Torino, quando aveva appena concluso “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: poesia dedicata a quell’amore maledetto e irraggiungibile, che tanto aveva rincorso tutta la vita, uscendone amaramente sconfitto.
Come emerge dal diario di Cesare Pavese, grande è la coincidenza della sua biografia con l’espressione artistica e letteraria. All’interno dei suoi romanzi e racconti – Paesi tuoi, La bella estate, La casa in collina, La luna e i falò – nel diario e nelle lettere l’autore disegna immagini di luoghi della sua infanzia. Traumatica, dalla quale possiamo ricavare i motivi fondamentali della sua poetica: la solitudine, la morte e le donne. Infatti Pavese visse praticamente sempre con la madre, la sorella o le badanti.
Per 1000 lire tradusse “Moby Dick “di Herman Melville e “Riso nero” di Anderson. Risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca. Era però l’attività di traduttore che gli forniva più guadagni. Successivamente ottenne un incarico dalla Einaudi: la direzione della rivista “La Cultura”, sostituendo Ginzburg, perché tra i candidati era il meno politicizzato.
Dal 1936 iniziò a redigere lo “Zibaldone”, un diario che diventerà in seguito “Il mestiere di vivere”. Questi anni, fino al 1949, rappresentarono i momenti più artistici della sua vita. Risalgono opere come “I racconti”, “Il carcere”, “Dialoghi con Leucò”, e “La casa in collina”. Nel 1949, scritto nel giro di pochi mesi, e pubblicato nella primavera del 1950, scrisse “La luna e i falò”, l’opera conclusiva della sua carriera letteraria.
Nel giugno 1950, per l’opera “La bella estate” vinse il Premio Strega, ma nemmeno quel riconoscimento riuscì a distrarlo dalla terribile tristezza che lo avvolgeva.
Tante sono le tracce che lo scrittore ha lasciato dietro di sé, ma non è mai stato preso sul serio. Un uomo solitario, la cui solitudine gli fu fatale.
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