È il sesto tumore più diffuso nella popolazione femminile, tra le cinque cause di morte per tumore tra i 50 e i 69 anni d’età. Ogni anno, nel mondo, colpisce oltre 250.000 donne e ne uccide 150.000. Nel 15-20% dei casi si tratta di forme maligne, il 90% delle quali è diagnosticato in donne di età superiore ai 40 anni. Parliamo del tumore ovarico, che colpisce circa 50.000 donne solo in Italia.
E proprio dal nostro Paese giunge una scoperta che potrebbe rivoluzionare l’approccio a questa patologia, caratterizzata da un quadro clinico spesso insidioso che ne rende tardiva la diagnosi e di conseguenza più bassa la probabilità di sopravvivenza.
I sintomi più comuni del tumore dell’ovaio, che si possono manifestare nelle forme più avanzate, includono gonfiore addominale, necessità di urinare spesso, dolore addominale. Sintomi meno comuni sono inappetenza, perdite ematiche vaginali, variazioni delle abitudini intestinali. Si tratta di sintomi aspecifici e comuni ad altre patologie.
Una corretta diagnosi di tumore dell’ovaio può essere posta attraverso l’ecografia pelvica e il controllo dei marcatori tumorali (CA125, CA19.9, HE4, CE15.3 e CEA) nel caso in cui il quadro ecografico risultasse sospetto.
Il carcinoma ovarico può essere diagnosticato in diversi stadi: I (limitato alle ovaie), II (su una o entrambe le ovaie ed esteso anche agli organi pelvici), III (su una o entrambe le ovaie, esteso agli organi pelvici e/o con metastasi ai linfonodi della stessa zona), IV (con la presenza di metastasi anche a distanza dalla zona delle ovaie, solitamente al fegato e ai polmoni.
Una buona o una cattiva prognosi dipendono dallo stadio del tumore al momento della diagnosi che, per questo motivo, deve essere il più tempestiva possibile.
È un esame citologico, noto anche come striscio vaginale, che studia le caratteristiche delle cellule prelevate dal collo dell’utero, identificando lesioni tipicamente maligne o che precedono la trasformazione tumorale.
A partire dal primo rapporto sessuale fino a circa 70 anni di età, è necessario sottoporsi ad un Pap-test ogni 3-5 anni. Le indicazioni più recenti della comunità scientifica suggeriscono di introdurre dopo i 30 anni il test HPV, esame di riferimento insieme al Pap test per la diagnosi del tumore del collo dell’utero ed utile a rilevare la presenza del papillomavirus (HPV). Se negativo, anche il Pap test potrà essere eseguito a intervalli di tempo più lunghi.
Attraverso una nuova procedura diagnostica sarà possibile scoprire il carcinoma dell’ovaio con sei anni di anticipo, consentendo una terapia più tempestiva. È quanto emerge da uno studio, pubblicato su Jama Network Open, condotto dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano in collaborazione con l’Ospedale San Gerardo di Monza e l’Università di Milano-Bicocca, con il supporto della Fondazione Alessandra Bono Onlus.
Lo studio ha esaminato solo pochi casi, ma ha già fornito dati molto incoraggianti.
I ricercatori italiani sono partiti dall’ipotesi che dalle tube di Falloppio, dalle quali prende origine l’80% dei carcinomi sierosi di alto grado dell’ovaio, possano staccarsi precocemente cellule maligne che, raggiunto il collo dell’utero, vengono prelevate tramite il Pap test. In tal modo, è stata dimostrata la presenza di DNA, derivante dal tumore ovarico, in Pap test ottenuti in pazienti affette da carcinoma dell’ovaio già sei anni prima della diagnosi.
Se confermato nei successivi test, questa scoperta potrebbe salvare molte vite umane, consentendo una diagnosi certa in fasi molto precoci della patologia e dunque un trattamento risolutivo.
Ma precisamente, cosa andiamo a cercare nel DNA tipico del carcinoma dell’ovaio?
Fin dalle fasi iniziali della trasformazione tumorale, le cellule maligne acquisiscono mutazioni a carico del gene Tp53, un vero e proprio “guardiano del genoma” che, se alterato, favorisce la crescita tumorale. In Pap test eseguiti sulle stesse pazienti sei anni prima della diagnosi di carcinoma ovarico, sono state riscontrate mutazioni clonali proprio a carico di questo gene.
Il nuovo test diagnostico, nel caso ne venisse confermata l’affidabilità, consentirebbe di avere un’arma in più per riconoscere precocemente una patologia che nella maggior parte dei casi si presenta in maniera subdola e insidiosa. Da questo deriverebbe il vantaggio di poter trattare il tumore in fase iniziale, usufruendo di una terapia chirurgica meno invasiva e demolitiva.
Dietro l’angolo, soprattutto in seguito alla pubblicazione dello studio su Jama, si profila una serie di collaborazioni con centri sia italiani che esteri. I ricercatori prevedono di riuscire ad ottenere risultati definitivi entro i prossimi 4-5 anni.
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