Le politiche sulla natalità sono spesso inefficaci nel contrastare il calo delle nascite. Scopri i motivi dietro risultati insoddisfacenti e le sfide globali sul fronte demografico
La recente diffusione dei dati sulla natalità in Italia da parte dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ha riacceso un dibattito ormai consolidato in Europa e nei paesi sviluppati: il declino delle nascite. Questo è un fenomeno demografico complesso, influenzato da fattori che possono variare da un paese all’altro, ma che rispondono anche a dinamiche sovranazionali.
Tra i temi centrali del dibattito, uno dei più discussi è l’efficacia delle politiche pubbliche implementate per aumentare la natalità, come nel caso dell’Italia.
Rimane difficile determinare quanto le misure per stimolare le nascite abbiano avuto un impatto concreto. Chi le critica, evidenzia che queste iniziative non sono mai riuscite, in nessun paese, a invertire la tendenza della diminuzione del tasso di fecondità (numero medio di figli per donna).
Chi invece le difende, sostiene che senza queste politiche il declino sarebbe stato più accentuato. Nonostante le divergenze di opinione, vi è consenso sul fatto che i bonus natalità, le agevolazioni fiscali e altri strumenti simili abbiano generalmente prodotto risultati inferiori alle aspettative governative.
Secondo i dati pubblicati dall’ISTAT, il tasso di fecondità in Italia nei primi sette mesi del 2024 si è attestato a 1,21, in calo rispetto all’1,24 del 2022 e all’1,44 del 2008. Un rapporto del 2019 dell’UNFPA (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di salute riproduttiva e ricerche demografiche) ha rivelato che metà della popolazione mondiale vive in paesi con un tasso di fecondità inferiore al livello di sostituzione di 2,1, necessario a mantenere costante una popolazione nel lungo periodo, al netto di fattori come la mortalità giovanile e l’assenza di immigrazione.
Un esempio classico di paese sviluppato impegnato nella lotta contro il calo della natalità è il Giappone. Da quando, alla fine degli anni ’80, il tasso di fecondità scese a 1,57, il governo giapponese ha cercato di affrontare la situazione con politiche mirate. Tuttavia, nonostante i numerosi incentivi e agevolazioni, nel 2023 il tasso di fecondità giapponese è arrivato a 1,2 (meno di uno a Tokyo), e le nascite sono calate del 5,6% rispetto al 2022, segnando il valore più basso registrato dal 1899. Questo andamento ha profonde implicazioni per il progresso economico del paese, poiché una forza lavoro più ridotta aumenta le pressioni fiscali e riduce le risorse per il sistema previdenziale.
Il fenomeno della denatalità non è però uniforme a livello globale. Circa il 10% dei paesi, principalmente situati nell’Africa sub-sahariana, registra tassi di fecondità superiori a 4, molto al di sopra del livello di sostituzione. Tuttavia, nei paesi colpiti da un marcato calo delle nascite, come dimostrano diverse proiezioni demografiche, le ripercussioni potrebbero risultare complicate da gestire. Un caso emblematico è quello della Corea del Sud, che detiene il tasso di fecondità più basso al mondo, con 0,72 figli per donna.
Le previsioni indicano che entro il 2050, in Corea del Sud, il numero di decessi triplicherà rispetto alle nascite, e l’età media della popolazione si avvicinerà ai 60 anni. Secondo stime riportate da Foreign Affairs, oltre il 40% della popolazione sudcoreana sarà sopra i 65 anni, e più di un sesto della popolazione avrà superato gli 80 anni. Nel 2050, i bambini rappresenteranno solo un quinto rispetto a quelli del 1961, con una popolazione destinata a ridursi del 95% nel giro di un secolo. Come osservato dall’economista statunitense Nicholas Eberstadt, «la situazione in Corea del Sud offre un’anticipazione di ciò che potrebbe accadere altrove».
Nel 1970, in Corea del Sud, nascevano poco più di un milione di persone. Nel 2023, questo numero è crollato a 230.000. Tomas Sobotka, demografo dell’Accademia austriaca delle scienze, ha semplificato la situazione affermando che, nel 2023, ogni lavoratore sudcoreano dovrà supportare economicamente circa quattro pensionati.
Le stesse preoccupazioni per il declino demografico affliggono numerosi paesi, come Italia e Stati Uniti, dove la popolazione in età lavorativa si sta riducendo rispetto a quella anziana, e in alcune aree l’occupazione per determinati settori inizia a scarseggiare. In mancanza di politiche migratorie adeguate, la gestione di questa situazione si rivelerà complessa per la società sudcoreana, come osservato da Sobotka. La polarizzazione delle opinioni pubbliche spinge molti governi a concentrarsi su misure pro-natalità, per rendere più conveniente avere figli, attraverso agevolazioni come asili nido sovvenzionati, congedi parentali e crediti d’imposta.
Secondo il rapporto dell’UNFPA, tra il 1986 e il 2015 il numero di paesi con politiche pro-natalità è aumentato da 19 a 55. Anche negli Stati Uniti, dove il tasso di fecondità è di 1,6, il declino delle nascite è diventato tema di dibattito nelle recenti campagne presidenziali. Ad esempio, il candidato alla vicepresidenza J.D. Vance ha sottolineato il basso tasso di natalità del paese, proponendo un credito d’imposta di 6.000 dollari per le famiglie con neonati.
Anche l’Ungheria ha implementato misure per incentivare la natalità, come una tassazione ridotta per le madri con più figli. Insieme alla Norvegia, l’Ungheria dedica una parte rilevante delle proprie risorse alla natalità, con una spesa pubblica che supera il 3% del PIL. Tuttavia, sia in Ungheria che in Norvegia, i tassi di fecondità restano sotto il livello di sostituzione. Nonostante gli incentivi, molte famiglie non considerano tali politiche abbastanza allettanti da cambiare i propri piani familiari. Inoltre, molti dei benefici fiscali e dei bonus sono riservati a coppie sposate eterosessuali della classe media.
Chi è contrario a queste politiche ritiene che rappresentino uno spreco di risorse pubbliche, destinate a persone che avrebbero comunque scelto di avere famiglie numerose. I sostenitori, tuttavia, sostengono che le politiche per la natalità, come i congedi parentali retribuiti, sono utili per migliorare il benessere delle famiglie. Anche se, secondo diverse ricerche, anche le politiche più generose non sono in grado di produrre aumenti significativi della natalità.
Nel corso della storia, alcuni governi sono stati in grado di intervenire efficacemente sui tassi di natalità, ma prevalentemente riducendoli. Ad esempio, la politica del figlio unico introdotta negli anni ‘70 in Cina è stata attuata per oltre trent’anni per limitare la crescita demografica. Anche il Giappone, dopo la Seconda guerra mondiale, ha promosso l’uso dei contraccettivi e legalizzato l’aborto per arginare la crescita della popolazione. In Corea del Sud, il governo ha scoraggiato le famiglie dall’avere più di due figli negli anni ‘70.
In Europa e negli Stati Uniti, il calo delle nascite è coinciso con l’aumento della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, una ridotta influenza della religione e l’aumento del tempo dedicato agli studi. La diminuzione delle nascite è quindi spesso vista come un segno di progresso, in quanto indica sia una riduzione della mortalità infantile che una minore dipendenza da modelli agricoli o familiari. Inoltre, testimonia il successo del controllo delle nascite e, di conseguenza, la possibilità per le donne di decidere se e quando avere figli.
Le aspettative culturali però, in molti paesi, rimangono legate a modelli di vita superati. Matthias Doepke, economista alla London School of Economics, ha osservato che questo fattore rappresenta una delle cause principali dei bassi tassi di fecondità nei paesi sviluppati.
In Giappone, ad esempio, la cultura lavorativa si è formata in un’epoca in cui molte donne rimanevano a casa, mentre gli uomini erano chiamati a dedicare molte ore al lavoro e alla socializzazione con i colleghi. Questo rende complesso per le donne giapponesi bilanciare lavoro e famiglia, dato che in Giappone, più che nei paesi occidentali, sono ancora le madri a occuparsi della prole.
I paesi scandinavi hanno adottato politiche per ridurre le disuguaglianze di genere, nella speranza di aumentare i tassi di natalità. La Svezia ha introdotto il «mese del papà» nel 1995, un congedo parentale dedicato al padre che non ha usufruito di tale beneficio. Anche se questa misura ha modificato in parte le aspettative culturali, il tasso di fecondità svedese (1,6) non è aumentato significativamente.
Il New York Times osserva che è difficile stabilire se queste politiche funzionino. Tuttavia, l’impressione generale è che i governi possano fare solo fino a un certo punto, soprattutto nei paesi democratici dove le misure sulla natalità spesso generano reazioni negative e scontri politici.
La decisione di avere figli è influenzata da molti fattori oltre a quelli economici. Anche se non risolvono il problema della natalità, politiche come i congedi parentali e i servizi di assistenza all’infanzia possono comunque migliorare il benessere delle famiglie.
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