Sul campo contro il Covid-19, armati di un nastro bianco e rosso, di acqua, sapone, mascherine fatte in casa e prevenzione sul territorio. È la storia di Mattia Quargnolo, medico specializzando in Igiene e Medicina Preventiva a Bologna, attualmente in formazione esterna in Uganda insieme a Medici con l’Africa Cuamm.
In base ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aggiornati ad inizio maggio, si registravano in Africa 30.356 contagi e 1.085 vittime, contro i 210.717 casi e le 28.884 vittime del nostro Paese. Sarebbero 53 i paesi africani colpiti dal contagio, con il Sudafrica in testa per il numero di casi – 6873 – e l’Algeria per il numero di morti – 463 su 4.474 casi.
Un andamento finora favorevole rispetto al resto del mondo, contro ogni più pessimistica aspettativa. La diffusione del Sars-CoV-2 nel continente africano ha destato, infatti, fin dall’inizio della pandemia, grande preoccupazione ed interesse da parte dell’OMS, non solo per la fragilità dei sistemi sanitari e dei servizi locali, nonché per lo scarso approvvigionamento di mezzi, acqua corrente e dispositivi di protezione, ma soprattutto per le gravi problematiche di tipo socio–economico che attanagliano la popolazione africana.
“Questa situazione di emergenza fa paura – racconta Mattia – perché in Africa, a differenza dei Paesi Occidentali, non siamo attrezzati per affrontarla. Non senza il rischio di complicare ulteriormente una realtà già dilaniata dalla generale instabilità socio–economica, dall’indigenza diffusa della popolazione, dalla malnutrizione e soprattutto dalla presenza estesa di altre patologie (AIDS, tubercolosi). Al momento nel distretto di Oyam, nel quale mi trovo da gennaio, non si registra nessun caso e solo pochi casi nel resto dell’Uganda, prevalentemente da importazione dagli altri paesi.”
La storia di Mattia è quella di un medico che ha scelto di svolgere sei mesi della sua formazione specialistica dall’altra parte del mondo. Una parte lontana, ma solo apparentemente. Una parte spesso dimenticata, ma alla quale siamo, in questa particolare fase storica, ulteriormente legati a doppio filo, in un unico destino che ci vede tutti impegnati a guarire dalle ferite profonde che l’emergenza ci sta, giorno dopo giorno, lasciando in eredità.
Il programma JPO (Junior Project Officer), promosso da Medici con l’Africa Cuamm, offre l’opportunità di svolgere sei mesi di attività formativa teorico-pratica in Africa agli specializzandi che hanno il desiderio di affrontare le sfide della salute globale e di dare il loro contributo ed impegno per la cooperazione sanitaria internazionale. “E’ una molla che ti scatta dentro”, si legge sul sito dei Medici con l’Africa. Ed è ciò che ha spinto Mattia a percorrere questa strada, impervia, complessa, ma gratificante.
“Qui in Uganda seguo un progetto di sanità pubblica, in particolare con un focus sull’area materno – infantile, che come sappiamo è centrale nei progetti del Cuamm. Facciamo da ponte tra l’Ospedale di Aber e il territorio supportando soprattutto il distretto. Uno dei nostri compiti nell’ambito della sanità pubblica, già in epoca pre–Covid, è quello di fare ‘training on the job’ in campo ostetrico e nutrizionale, fare un controllo dei dati ministeriali, in particolare sulla mortalità materno–infantile, e dai dati raccolti estrapolare il quadro epidemiologico in base al quale cercare di adottare tutti i provvedimenti necessari per migliorare l’assistenza sanitaria.”
Nonostante la scarsa circolazione iniziale del virus, sono state immediatamente messe in atto le misure di prevenzione e di sorveglianza, volte a limitare i contagi.
“Fin dall’inizio sono stati chiusi i confini. L’Uganda – spiega Mattia – è stato uno dei primi Paesi ad aver applicato il lockdown: ci si può spostare solo a piedi o in bici. Anche i mototaxi, il principale mezzo di trasporto nella zona, sono vietati. Sono aperti solo i negozi alimentari, mentre tutti gli altri sono stati chiusi dal primo giorno. E questa situazione di blocco proseguirà per altre tre settimane.”
Ma quanto sono risultate finora efficaci tali misure? E soprattutto, qual è stato l’impatto su una popolazione già alle prese con i problemi economici e con le conseguenti tensioni sociali?
Mattia ammette di avere qualche perplessità in merito alle misure di blocco, soprattutto per le implicazioni sull’economia di un Paese già fragile, nel quale l’epidemia ha trovato facilmente breccia.
“I commercianti – testimonia – hanno cercato di ribellarsi, ma ogni tentativo di protesta è stato prontamente represso dalla polizia. Qui si sente in maniera forte la storia di Ebola, che ha avuto diffusione pochi anni fa proprio nella zona in cui mi trovo – aggiunge – e sulla scorta della precedente esperienza tutti i sistemi di sorveglianza e di prevenzione, già rodati con il virus Ebola, sono stati nuovamente adottati, per quanto si tratti di due malattie completamente differenti e che come tali richiedono provvedimenti ben distinti. A questo ha contribuito anche il fatto che, allo scoppio dell’epidemia, tutti qui erano molto spaventati: i primi casi sospetti venivano cacciati dai villaggi ed emarginati.”
Luci ed ombre, dunque. Anche nei mezzi disponibili e nelle possibilità di approvvigionamento.
“Qui ci sono solo 50 posti in terapia intensiva, a fronte di 40 milioni di abitanti. Anche l’ossigeno è scarso, così come le cure per i casi lievi, che dovrebbero trovare nel territorio e nell’assistenza primaria l’adeguato supporto. È per questo motivo che stiamo lavorando a pieno ritmo sulla prevenzione e soprattutto sulla sensibilizzazione della comunità, traducendo le linee guida ministeriali e contribuendo alla formazione sia degli operatori sanitari che della popolazione locale. È fondamentale una corretta comunicazione sulle caratteristiche del virus, sulle sue modalità di trasmissione, sui sintomi principali del Covid-19 e su tutte le misure che possono essere applicate quotidianamente per impedirne la diffusione. Rendere il più possibile fruibili queste informazioni per le persone comuni può contribuire a responsabilizzarle e a consentire una presa di coscienza dell’emergenza in atto.”
Altrettanto evidente è l’importanza, nel nostro Paese così come nel continente africano, di percorsi separati e di misure igieniche e comportamentali utili a prevenire i contagi. “Sono stati predisposti centri di isolamento e centri dedicati alla quarantena per i pazienti sospetti e per i Covid+, ma soprattutto mettiamo in atto una scrupolosa attività di triage: abbiamo delimitato con un nastro bianco e rosso uno spazio preposto come accesso separato, dotato di acqua e sapone, e ci siamo muniti di termometri ad infrarossi per effettuare uno screening di base, oltre che di un lavandino a pedale, costruito da noi. I mezzi a nostra disposizione sono pochi e la soluzione, oggi contro l’emergenza Covid come già precedentemente, è quella di ottimizzare”.
Pochi mezzi, pochi dispositivi di protezione e scarso materiale sanitario.
“Inizialmente, dato l’esiguo approvvigionamento, ci siamo adattati con mascherine fatte in casa utilizzando assorbenti ed elastici. Poi sono arrivati i primi rifornimenti di DPI, disponibili soprattutto per noi e per gli altri operatori sanitari impegnati nell’esecuzione dei tamponi. Vengono effettuati circa un migliaio di tamponi al giorno, 60 mila tamponi dall’inizio dell’emergenza, oltre il 90% dei quali negativi.”
È un dato oggettivo che la circolazione del Sars-Cov2 in Africa sia stata finora bassa. Quali possano essere i fattori “protettivi” è oggetto di dibattito: popolazioni in media molto giovani (età mediana 19,7 anni; 60% della popolazione con meno di 25 anni), che resistono meglio al contagio; il clima temperato che renderebbe il virus meno attivo; o semplicemente il fatto che molti casi non vengono riconosciuti come tali, o perché paucisintomatici o perché non sottoposti a test specifici.
“Tutti aspetti plausibili, ma d’altro canto – precisa Mattia – va considerato che le popolazioni africane, seppur giovani, sono gravate da pregresse patologie infettive ad ampia diffusione e dalla malnutrizione che ne compromettono le difese immunitarie. Inoltre, in Paesi come il Brasile o la Malesia, nei quali sussistono condizioni climatiche analoghe a quelle africane, si registrano alte percentuali di contagio, contraddicendo l’ipotesi secondo la quale il caldo possa proteggere dal virus”.
A preservare l’Africa da una incontrollabile ondata possono aver contribuito le misure di prevenzione adottate in tempi molto precoci, soprattutto nelle aree in cui il blocco è stato fin dall’inizio totale.
“Si teme ora un’ondata di casi dall’esterno – avverte – ad esempio dalla Tanzania, dove non è stato messo in atto il lockdown e non vengono eseguiti tamponi a sufficienza. I rischi potrebbero essere gravissimi, sia per le precarie condizioni igieniche sia per la fragilità delle strutture sanitarie e la forte carenza di posti in terapia intensiva e di DPI.”
Siamo tutti legati da un destino comune, questo nuovo nemico lo sta dimostrando, colpendo i Paesi poveri come quelli ricchi. Quali insegnamenti si possono trarre dall’esperienza in Africa che potrebbe essere utile applicare anche in Italia?
“Qui sto imparando tanto. Ho imparato che è fondamentale ridurre il gap sociale e dare a tutta la popolazione possibilità di cure ed assistenza. Ho imparato che la formazione è il primo passo per la sostenibilità dei sistemi sanitari. E che il territorio è la chiave di svolta. È importante coinvolgere la comunità con informazioni chiare, entrare in connessione con i pazienti e lavorare in rete. L’esperienza precedente del Cuamm nel controllo delle epidemie di Ebola, TBC fino all’HIV ha insegnato che quanto più il territorio si coordina con gli ospedali tanto migliori sono i risultati, e sono convinto che questo possa valere anche in Italia.”
L’Africa non è poi così lontana.
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