È almeno dallo scorso 12 novembre che Matteo Renzi continua a ribadire pubblicamente che, a suo parere, “si andrà a votare nel 2022”. Lo disse per la prima volta ospite di Otto e mezzo, su La7: “Sarebbe un male per il Paese. C’è uno sfilacciamento delle forze politiche che non mi piace, non mi convince”. Lo ripeté in seguito a L’Aria che tira, Non è l’Arena, Controcorrente (Rete4) e infine sul palco dell’ultima edizione della Leopolda. “Ho l’impressione che i leader dei principali partiti abbiamo l’interesse di andare a votare. Un interesse che è politico e personale”. Ma cosa c’è di vero rispetto a quanto affermato dal leader di Italia Viva? Sono solamente proclami oppure, sotto sotto, le sue parole nascondono una minaccia politica nei confronti della tenuta del governo?
Andiamo con ordine. L’attuale legislatura parlamentare terminerà costituzionalmente nel marzo 2023. Quindi Matteo Renzi si dice convinto che il Parlamento verrà sciolto con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale del suo mandato elettorale: il 2022, appunto. Perché questa sicurezza da parte del senatore semplice di Firenze, Scandicci, Insigna e Impruneta? Che basi ha la sua teoria?
Renzi non argomenta la sua analisi. In ogni caso sarebbero sostanzialmente due gli appuntamenti politici previsti, per il prossimo anno, che possono far scuotere Camera e Senato: l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e il voto sui referendum abrogativi. Sul primo ormai è da mesi che aleggia il nome di Mario Draghi. Se l’ex presidente della Banca Centrale Europea non fosse diventato nel frattempo presidente del Consiglio nello scorso febbraio, avrebbe avuto il 99,9% periodico di probabilità di venire eletto come nuovo Capo dello Stato.
Da Palazzo Chigi, invece, le sue quotazioni sono leggermente scese. Questo perché il passaggio di consegne con un suo ipotetico successore, in piena quarta ondata e con i soldi del Pnrr che saranno in procinto di arrivare, non sarà così semplice. Se però alla fine dovesse essere proprio Draghi a diventare il nuovo coinquilino del Quirinale, non sarebbe poi così improbabile un’interruzione prematura della legislatura.
Difficilmente, infatti, gli attuali partiti che sostengono il governo attuale rimarrebbero della stessa idea attorno a un nome (inevitabilmente) meno prestigioso come quelli del ministro dell’Economia, Daniele Franco, o della Giustizia, Marta Cartabia. Con Draghi al Colle, le elezioni anticipate sarebbero di fatto più vicine. Per la felicità di tutti quei partiti di maggioranza (Lega e Movimento 5 Stelle in testa) che non vedono l’ora di staccarsi dall’“ammucchiata” dell’esecutivo dettata dal senso di responsabilità chiesto da Mattarella nove mesi fa. Insomma: per avere mani libere e dimostrare al più presto di avere autonomia politica agli occhi del proprio elettorato.
Ce ne siamo quasi dimenticati, ma sono in arrivo ben nove referendum abrogativi. Sei sulla giustizia, uno ciascuno sulla cannabis, sull’eutanasia legale e sulla caccia. Non tutti i quesiti verranno ammessi. Dopo il controllo della Cassazione sulle 500mila firme necessarie raccolte, la Consulta (entro e non oltre il prossimo 20 febbraio) stabilirà quali saranno ammissibili secondo Costituzione, con criteri che in passato hanno fatto “strage”. Dunque è probabile che alla fine ne rimanga qualcuno in meno. Ma occhio però alla legge numero 352 del 1970, articolo 34, al comma 2. Stabilisce che, nel caso di scioglimento anticipato delle Camere, i referendum vadano rinviati di un anno. Nel nostro caso, anziché tenerli nella prossima primavera, se ne riparlerebbe tra il 5 aprile e il 15 giugno del 2023.
Da qui, l’aggancio con le trame politiche in corso: chi volesse evitare i referendum, perché teme di perdere a breve una battaglia ideologica importante, potrebbe farsi i propri conti e magari approfittare del caos sul Quirinale per calare il sipario sulla legislatura. In questo modo eviterebbe di pronunciarsi sui quesiti referendari e scaricherebbe la grana sul prossimo Parlamento. A quel punto, la profezia di Renzi sul voto nel 2022 potrebbe veramente materializzarsi. Anche se, forse, più che un vaticinio, la sua sembrerebbe una frase scaramantica. Non è infatti un mistero che, in questo momento, per questioni di consensi (promessi o minacciati dai sondaggi) non esattamente entusiasmanti, Italia Viva preferirebbe aspettare il 2023 per avere il tempo necessario per mettere a punto l’idea di un “grande centro”.
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