“Presidente, è pazzesco: dopo tutto quello che ha fatto, io mai avrei immaginato che la storia l’avrebbe rivalutata così in fretta: c’è voluto Renzi per farci venire nostalgia di lei”. Questa fulminante battuta di Crozza rivolta a Berlusconi durante una puntata di Di Martedì del 29 novembre 2016, su La7, racconta in maniera eloquente il clima che una parte di cittadini italiani respirava (e viveva) a pochissimi giorni dal referendum costituzionale che mise la parola ‘fine’ all’esperienza di governo di Matteo Renzi. L’idea di fondo insita nell’elettorato appartenente (soprattutto) al mondo della sinistra era sostanzialmente la seguente: “Renzi ha così tanto rotto le scatole che, quasi quasi, rimpiango i tempi in cui c’era Silvio”.
E qual era l’unico modo (democratico, s’intende) per far sì che l’attuale senatore fiorentino lasciasse Palazzo Chigi? Votargli contro nel referendum sulla riforma del Senato sul quale lui aveva posto tutte le sue fiches politiche. “Lo dico qui, prendendomene la responsabilità. Se non riesco a superare il bicameralismo perfetto, non considero chiusa solo l’esperienza del governo: considero chiusa la mia esperienza politica”. Concetto replicato anche da Maria Elena Boschi, allora ministra delle Riforme. “Se dovesse andare male, noi non continueremo il nostro progetto politico. E allora verranno altri a prendere il nostro posto”. Una promessa, quest’ultima, soltanto poi mantenuta a metà. Ma tanto bastava affinché in quella domenica 4 dicembre 2016 arrivasse una valanga di NO al quesito referendario: il 60% di chi era recato alle urne, quasi 20 milioni di persone in termini assoluti.
Il 27 marzo 2014, il sito di Libertà e Giustizia pubblicò un ‘drammatico’ appello firmato da Zagrebelsky, Rodotà, Carlassare, Settis e altri contro la “svolta autoritaria” delle due riforme appena partorite da Renzi e Boschi dopo il Patto del Nazareno con Berlusconi. Una era l’Italicum, considerata dall’allora presidente del Consiglio “la legge elettorale più bella del mondo che tutti ci copieranno”; l’altra era la modifica di un terzo della Costituzione per trasformare il Senato attuale in un ‘senatino delle Regioni’. Se si fosse votato allora, sarebbe finita col Sì al 99% e il NO all’1%. La sinistra del Pd balbettava, per poi ridursi al silenzio o saltare sul carro del vincitore di lì a due mesi, quando Renzi trionfò alle elezioni europee. E Berlusconi, ovviamente, era favorevole a quella riforma che aveva ancora la sua firma in calce.
Sicuramente quel suo “Se perdo il referendum, mi dimetto e lascio la politica” aveva messo un po’ di acquolina in bocca alle persone che volevano sbarazzarsi di Renzi. Anche tra coloro che sapevano poco o niente sui contenuti della riforma, ci fu una corsa al seggio per sfruttare un’occasione utile per salutare il governo sostenuto da Pd e Alfano. Il netto sorpasso del NO fu (quasi) inevitabile. Un mese e mezzo più tardi, la Consulta boccerà anche l’Italicum, perché incostituzionale.
Dimissioni dal governo, ma niente abbandono della vita politica. Il motivo risiedeva nel fatto che quel 40% del Sì fosse tutto suo e che quindi poteva trasformarsi in voti a favore del Pd nelle successive elezioni. Un ragionamento che non faceva proprio una piega. Con gli stessi parametri si poteva anche affermare che Marco Pannella, con tutti i referendum abrogativi che aveva vinto in vita sua, sarebbe dovuto diventare presidente della Galassia.
Così Renzi si ricandidò immediatamente, nella primavera 2017, alle nuove primarie del Partito Democratico, provocando una dolorosa scissione all’interno del partito. Rivincendole. Subito dopo, a giugno, arrivarono le elezioni comunali che vengono stravinte dal centrodestra. In un solo colpo il Pd perse città che governava da anni se non addirittura da decenni, comprese le operaie Genova, La Spezia e Sesto San Giovanni (la Stalingrado d’Italia). Il gioco era ormai molto semplice e chiaro: nei ballottaggi Renzi era così detestato, che anche quelli che avrebbero votato a sinistra preferivano o restare a casa oppure votare un berlusconiano o un salviniano piuttosto che un ‘antipatico’ renziano. Così i candidati di destra passavano alla cassa a riscuotere consensi lasciati per strada.
A novembre il Pd prese un’altra batosta alle regionali siciliane, vinte dal meloniano Nello Musumeci, arrivando terzo su quattro. Renzi ricondusse ancora una volta quel voto a meri risultati locali, tanto che l’autore comico Luca Bottura lo fulminerà con un tweet esilarante e al tempo stesso profetico. Renzi: <Le elezioni nazionali non hanno valenza nazionale>”.
Si arriva così (veramente) alle elezioni politiche del 4 marzo 2018: il Partito Democratico raggiunse la percentuale più bassa mai ottenuta nella sua storia (18%). Renzi si dimise da segretario e adottò la politica del pop-corn davanti al governo di Movimento 5 Stelle e Lega, negando ogni possibilità di dialogo con Di Maio. “Non voterò mai per un governo con i 5 stelle o con la Lega”, ribadirà a luglio del 2019. Quando ormai il nuovo segretario del partito era Nicola Zingaretti. Fatto sta che l’11 agosto successivo una sua intervista al Corriere della Sera determinò la giravolta per abbracciare il Conte 2 dopo la crisi del Papeete voluta da Salvini. L’esecutivo durerà fino alla crisi del febbraio 2021, picconato in continuazione (e poi fatto cadere) dallo stesso senatore semplice di Firenze, che nel frattempo aveva lasciato il Pd per fondare Italia Viva. Il tutto per favorire il passaggio del testimone a Mario Draghi.
E pensare che Renzi, quando stravinse le primarie dell’8 dicembre 2013, venne accolto sul palco del teatro Obihall di Firenze dal suo comitato in festa con in sottofondo una canzone che descrive in maniera perfetta la sua concezione di fare politica. Il titolo del brano in questione era I love it degli Icona Pop. Il testo, nella sua traduzione in italiano, fa pressappoco così in un suo passaggio. “La mia macchina si è schiantata sotto un ponte e l’ho guardata mentre bruciava. Non mi importa! Mi piace!”. Fatto sta che il 26 maggio 2014 ottenne il 41% alle elezioni Europee. Nei quattro anni successivi dimezzò abbondantemente il consenso e adesso, quattro anni ancora più tardi, rasenta il 2%. Insomma, da questo punto di vista, si potrebbe affermare che il brano degli Icona Pop sia stato seguito alla lettera.
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