Matteo Renzi e Gianfranco Fini. È difficile trovare qualcosa in comune tra i due, che sono diversissimi per età anagrafiche, storie, esperienze e schieramenti politici. Eppure entrambi potrebbero essere legati da una dinamica parlamentare simile che tende a ripetersi a distanza di dieci anni. Le loro vicende riguardano la caduta dei due rispettivi governi in carica: il Conte 2 e il Berlusconi 4.
Sì, perché nell’autunno del 2010 Futuro e Libertà per l’Italia, il partito fondato da pochi mesi da Fini che si era scisso in aperta contrapposizione dal Popolo delle Libertà di Silvio Berlusconi, aveva deciso di ritirare la propria delegazione dal governo. Il 15 novembre l’allora ministro delle Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi, il viceministro dello Sviluppo Economico, Adolfo Urso, e i sottosegretari all’Ambiente Roberto Menia e alle Politiche Agricole Antonio Buonfiglio, si dimettono. I finiani continueranno comunque ad appoggiare il governo dall’esterno, ma un mese dopo depositeranno una mozione di sfiducia nei confronti dell’esecutivo.
FLI sarebbe determinante per non mandare sotto Berlusconi, soprattutto alla Camera, e quindi la conclusione del governo sembrerebbe inevitabile. Ma ecco giungere tre ex deputati del centrosinistra a fondare il Movimento di Responsabilità Nazionale. Passerà alla ‘storia’ la vulcanicità dell’ex dipietrista Domenico Scilipoti, insieme a Bruno Cesario e Massimo Calearo. I loro tre voti contro la sfiducia si riveleranno determinanti affinché Berlusconi resti in carica il 14 dicembre. Almeno fino alle dimissioni del novembre 2011, sostituito da Mario Monti.
Se per Gianfranco Fini quella del dicembre 2010 sancì di fatto la sua fine politica, per Matteo Renzi ora si apre una pagina bianca. Che verrà riempita a seconda di come finirà l’esperienza del governo giallorosso a seguito delle dimissioni di Bellanova, Bonetti e Scalfarotto. E, soprattutto, se arriveranno i fantomatici “responsabili”. In quel caso, il rischio per il leader di Italia Viva sarebbe quello di vivere una lunga opposizione presumibilmente sterile, marginale e irrilevante. In un guado. A metà strada tra la visibilità al governo del Pd e dei 5 Stelle da una parte e la dinamicità collaudata di Salvini e Meloni dall’altra.
A ben vedere, però, Renzi e Fini sembrano essere più simili in molte altre caratteristiche. Entrambi hanno fatto solo politica. Hanno criticato duramente la gestione da parte del vertice del loro partito (rispettivamente la ‘ditta’ del Pd e Berlusconi) abbandonando i temi tradizionali di sinistra e di destra. Hanno minacciato più volte di andarsene dal proprio partito (che ha visto molteplici tentativi di scalate dei due). Senza mai però farlo quando sembrava loro il momento più opportuno e conveniente. I due hanno attirato un pezzo del loro elettorato per convogliarlo in un nuovo spazio politico che avrebbe colmato un vuoto che, oggettivamente, c’era e c’è nella società, grazie alle loro correnti di riferimento, i cui aggettivi prendono ispirazione dal loro cognome per essere identificati in maniera inequivocabile (renziani e finiani).
Renzi e Fini sono arrivati a un punto tale di insofferenza personale che si sono fatti cacciare oppure si sono messi nella condizione di dovere lasciare. A causa del proprio atteggiamento (a partire dal vivere i rispettivi partiti come un peso). Entrambi hanno convogliato diversi parlamentari nei nuovi gruppi nascenti (Italia Viva e Futuro e Libertà) che sarebbero stati determinanti per la conclusione o meno dei Governi Conte 2 e Berlusconi 4. I due, però, hanno toppato nella fase più importante delle loro rispettive partite. Renzi personalizzando la campagna referendaria del 2016 (e non lasciando la politica come promesso) e Fini non abbandonando la presidenza della Camera dopo aver fondato FLI.
Insomma, per vedere se anche l’ultimo tassello confermerà una certa ‘affinità’ tra questi due leader politici (entrambi progressivamente passati da un’empatia traversale a un’‘antipatia’ politica a livello comunicativo, fino a diventare addirittura invisi a milioni di elettori) non resta che aspettare le prossime settimane.
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