Almeno 25 morti, oltre cento feriti: è questo, al momento, il bilancio dell’attentato all’aeroporto internazionale di Aden, in Yemen. Due le esplosioni principali, la prima delle quali poco dopo l’atterraggio dell’aereo che trasportava i membri del nuovo Governo riconosciuto dalla comunità internazionale, quello di Abd Rabbuh Mansur Hadi. Nessuno, fra i ministri, ha riportato feriti, secondo fonti della sicurezza yemenita citate dalle agenzie di stampa internazionali. L’attentato è l’ultimo, triste capitolo di una guerra civile che va avanti dal 2015. E coinvolge anche alcuni Paesi occidentali.
Il conflitto armato è iniziato ufficialmente nella notte fra il 25 e il 26 marzo 2015, quando l’Arabia Saudita, a sostegno di Hadi, ha iniziato a bombardare le postazioni dei ribelli sciiti di Houthi, legati all’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh e sostenuti dall’Iran. Da allora la guerra civile, una delle più atroci della storia recente, ha causato oltre 10mila vittime accertate solo in Yemen. La maggior parte delle quali tra i civili. Il numero degli sfollati ha sorpassato i 3 milioni.
Per provare a comprendere le cause del conflitto, bisogna risalire alla cosiddetta Primavera araba. A cavallo fra il 2011 e il 2012, infatti, Saleh (che comandava lo Yemen del Nord dal 1978 e contribuì all’unificazione con la parte Sud nel 1990) lasciò il potere dopo un’insurrezione popolare guidata, soprattutto, dai ribelli di Houthi e dal gruppo Islah. A guidare la transizione verso il nuovo governo furono i sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Si tratta, nello specifico, di Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Saleh accettò in un primo momento di lasciare il potere, lasciando la presidenza a Hadi: un’elezione riconosciuta dalla comunità internazionale.
Hadi, però, non riuscì a mantenere la promessa fatta prima della sua ascesa al potere, cioè quella di formare un governo che includesse i gruppi separatisti. La situazione in Yemen, Paese già colpito dall’estrema povertà della popolazione, con un tasso di malnutrizione che colpisce un abitante su due secondo le statistiche fornite dalle ong internazionali, è rapidamente degenerata. Anche per pressioni sul nuovo governo dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati (a maggioranza sunnita), che temevano l’ascesa dei gruppi sciiti come Houti. Non secondario anche il ruolo dell’ISIS, benché i terroristi dello Stato Islamico abbiano perso i territori conquistati nella prima fase del conflitto.
La stessa Arabia Saudita non è stata mai sanzionata per i bombardamenti in questi cinque anni e mezzo. Il re Salman, inoltre, si è opposto alla creazione di corridoi umanitari per l’invio di medicinali e cibo ai civili. Il tutto nonostante l’Onu consideri “la morte per fame utilizzata come arma” come un crimine di guerra, almeno stando alle parole pronunciate dall’allora segretario generale Ban Ki-moon nel 2016.
A subire le conseguenze più drammatiche della guerra sono soprattutto i bambini: costretti a morire per malnutrizione e malattie, sono anche stati vittime di attacchi mirati, come quando nell’agosto 2018 un raid saudita contro uno scuolabus causò 43 morti e 60 feriti. O come quelli del marzo 2019, quando l’aviazione del regno bombardò un ospedale di Save the Children provocando sette morti, tra cui quattro minori.
Il ruolo degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, soprattutto per quel che riguarda l’esportazione degli strumenti di morte in Paesi come l’Arabia Saudita, resta ambiguo nonostante i passi fatti proprio dall’Ue in tempi recenti. A luglio, infatti, il Parlamento Ue ha votato a favore di una risoluzione che pone un limite proprio all’esportazione delle armi.
Le iniziative, però, sono ancora poco efficaci e non sambrano bastare nella triste ‘partita a scacchi’ in Medioriente. Con lo Yemen, sempre più ferito, che fa i conti con un presente tremendo e un futuro che non promette ancora nulla di buono.
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