Tra le tante conseguenze che la guerra in Ucraina ha inevitabilmente portato con sé, c’è sicuramente quella dell’arrivo dei profughi nel centro Europa. Da un mese a questa parte il flusso di persone che scappano dal conflitto provocato dalla Russia di Putin (soprattutto donne e bambini) è inarrestabile. L’Italia non si è certamente nascosta davanti all’opera di solidarietà espressa nei confronti della popolazione ucraina: al 23 marzo, secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono oltre 61mila i rifugiati accolti dal nostro Paese. Ma come si sta muovendo l’Unione Europea nel suo complesso? A parte i Paesi di frontiera (e pochi altri), i numeri sulle persone arrivate nella zona centrale del nostro continente non sono del tutto trasparenti. Come mai questa discrepanza? Lo abbiamo chiesto ad Antonio Ricci, vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS.
Dottor Ricci, com’è la situazione in Europa dei profughi che arrivano dall’Ucraina?
«In questo momento è sicuramente molto fluida. I vari Paesi si stanno attrezzando autonomamente. Il coordinamento europeo è quello di dare, come strumento legale per l’arrivo dei richiedenti asilo, la protezione temporanea. Ma è un provvedimento che ogni Stato può decidere di implementare oppure no. I profughi vengono registrati e inseriti dalle Questure in una lista ad hoc, in attesa di lasciargli un permesso di protezione temporanea. Questa però, come meccanismo, è un’arma a doppio taglio: dura un anno, si proroga per il secondo, mentre per il terzo avviene solo in casi straordinari. Quindi l’approccio è quello del rimpatrio, in attesa che la situazione sia migliorata».
Quindi ci sono numeri diversi da Paese a Paese, è corretto?
«Prendiamo, per esempio uno Stato che non fa più parte dell’Unione Europea: il Regno unito. Era finito sui giornali perché aveva accolto solo una dozzina di rifugiati. È successo che ci sono state delle grandi manifestazioni a Londra. Così, la scorsa settimana è stato assunto un provvedimento normativo sulle sponsorizzazioni».
Che cosa succede, quindi, in questo caso?
«Le famiglie si mettono a disposizione e sponsorizzano, con delle garanzie, un nucleo di persone ucraine per cui queste ottengono il permesso di soggiorno. Solo così sta avvenendo l’accoglienza in Regno Unito: con un meccanismo che ne copre l’accoglienza e l’inserimento. Insomma: dal governo c’è stata una risposta molto tiepida. Si tratta di un’iniziativa che parte dal basso».
La Polonia ha accolto più di tutti i profughi dell’Ucraina: sono tutti in transito? Quanti ne rimarranno?
«Potrebbe facilmente diventare un ‘semplice’ Paese di destinazione. Pensi nel 2020, in tempo di Covid e prima dello scoppio della guerra, rilasciava oltre 300mila permessi di soggiorno temporanei per lavoratori ucraini. È in grande crescita e ha bisogno di manodopera. Quindi ci sarebbero delle precondizioni in questo Paese: un mercato del lavoro che è abituato a prendere dei ‘temporanei’ che verrebbero poi integrati lavorativamente».
In futuro, una volta finita l’emergenza, come si comporterà con queste persone?
«È troppo presto per capirlo. Bisognerà vedere se userà le leggi nazionali o ricorrerà alla protezione temporanea. In questo secondo caso, la Polonia potrebbe dare loro la Convenzione di Ginevra (quindi la permanenza a tempo indeterminato) o ricorrere a degli status di protezione umanitaria tollerata. Quest’ultima vale solamente nel suo Paese e, fino a ieri, la utilizzava per i richiedenti asilo della Cecenia. Quindi altre perseguitate sempre dalla Russia. Non esattamente (nemmeno questo) un fatto molto gradito a Putin. Ma non gli riconosceva Ginevra. Anche perché molti di questi erano combattenti accusati di crimini di guerra: sostanzialmente non gli rimandava indietro in Russia».
Ma allora come mai ci sono così pochi dati su questi flussi?
«Bisogna tenere anche conto di una cosa. I Paesi di prima frontiera stanno gestendo l’accoglienza tramite i cittadini, il volontariato, le Ong. E non lo Stato. Sia la Romania sia la Polonia sono totalmente impreparati: sia per l’accoglienza sia per l’integrazione. La Polonia, che ha rifiutato le relocation dei richiedenti asilo dalla Grecia all’Italia, ha un sistema di accoglienza di 30 anni fa. Non lo ha mai messo in discussione. Soltanto adesso la Pubblica Amministrazione si sta a poco a poco organizzando. Per fare un esempio: la capitale della Transilvania, Cluj-Napoca, si sta preparando per costruire un enorme hub per l’accoglienza. Il discorso è che: devono costruirlo, devono ricevere i fondi nazionali, la Commissione Europea ha solo recentemente annunciato di promettere fondi aggiuntivi rispetto a quelli soliti».
I tempi, quindi, non sono propriamente velocissimi.
«Esattamente».
Eppure nemmeno sei mesi fa si parlava di PolExit: la Costituzionale polacca aveva stabilito che ogni sentenza dell’Unione Europea deve essere conforme alla legge polacca, per essere applicato in Polonia. È cambiato qualcosa?
«Quello era un manifesto politico. Già nell’Europa a sei, alcuni stati membri avevano già sottoposto la questione, ma le Corti Europee avevano sancito che la legge comunitaria è comunque superiore alle leggi nazionali. I politici polacchi sanno perfettamente che si trattava di una posizione velleitaria, ma aiuta a fare politica. È un messaggio che si dà ai propri cittadini: non ci facciamo imporre niente da Bruxelles. È solo questione di tempo. lo abbiamo già visto, non ci sono chance. C’è però il discorso del negoziato sulla protezione temporanea: la Polonia alla fine ha accettato, votando a favore, con l’escamotage di dire che si tratta comunque una scelta individuale dei Paesi. L’Europa dell’Est ha bisogno di forza lavoro. Ma allo stesso tempo tenersi gli ucraini è difficile, perché il costo della vita non è affrontabile con uno/due salari medi».
Ma quanto durerà questo sentimento di ‘generosità’ globale?
«La protezione temporanea, che l’Italia non ha ancora attuato, rende impossibile la divisione delle quote. La Germania l’avrebbe voluta, anche per una questione caratteriale. Per fare bene le cose, insomma. La Germania ha detto che anche se ci sono profughi africani, gli apriamo la porta comunque. È già si parlava di 160mila. Quindi la pressione sui Paesi di primo transito si sta un po’ alleggerendo. Solo lei e l’Italia si stanno muovendo a livello di Istituzioni. Il discorso è che il diritto alla libera circolazione all’interno dell’Ue. In Italia abbiamo avuto molto spesso degli ‘innamoramenti’ immediati con gli albanesi, con i tunisini, che si sono poi tramutati in atteggiamenti più ‘severi’. La percezione che adesso è certamente molto positiva».
Cambierà?
«Se gli ucraini che arrivano li lasciamo al di fuori del sistema di accoglienza, quindi senza fissa dimora e non accompagnati da percorsi di integrazione, allora cambierà l’approccio. Alla solidarietà seguirà lo scontento».
Restiamo all’Italia: come ci stiamo muovendo in tal senso?
«Il governo si è già mosso, oltre al volontariato e alle parrocchie, per prevedere l’incanalamento dei nuovi arrivati nell’ex Sprar».
Lo Stato sarà in grado di dare una risposta numericamente adeguata e nei tempi dovuti
«Questa sfida si baserà sul medio tempo. Il sistema di accoglienza, così come era stato organizzato dai Comuni, si fondava sulla sussidiarietà. Ovvero con il coinvolgimento del terzo settore per completare l’accoglienza con l’integrazione. Se gli ucraini non riusciamo a integrarli, e dipenderà solo dal volontariato, nascerà un atteggiamento di rifiuto. È una questione di risorse da mettere in campo. Una volta che un profugo vorrà cercare lavoro in Italia, dovrà esserci accompagnamento che sia sociale e sostanziale. L’accoglienza, accompagnata dall’integrazione, deve guidare all’autonomia. Al nostro Paese manca questo ultimo passaggio. Il rischio sarebbe quello di creare situazioni di persone abbandonate a se stesse».
Insomma, tutto dipenderà dall’integrazione.
«Teniamo presente anche un aspetto. Un immigrato che arriva dal centro dell’Africa proviene da un sistema scolastico che è quello francese. Quindi, teoricamente, ha svolto un percorso di studi molto più omogeno di un cittadino che viene dall’universo post-sovietico. È solo il colore della pelle che ci fa pensare il contrario. È vero che, a differenza degli africani, hanno una rete di famigliari e di persone ecclesiali che è molto forte e possono aiutarli. Ci sono tanti preti ortodossi ucraini che si possono attivare per creare dei percorsi di integrazione. Che funzionano solo se c’è poi un’integrazione lavorativa».
E ci sarà?
«Il mercato del lavoro in Italia è poco dinamico e offre spazi nei lavori più vicini allo sfruttamento e al lavoro nero. Oppure a mansioni poco desiderate e remunerative. Bisogna vedere quanto siano qualificate queste persone che arriveranno. E se vogliono rimanere. Magari pensano di ricostruire e in quei casi i flussi di ritorno, legati a esigenze sentimentali, sono fortissimi. Come successe a noi dagli Usa con il terremoto di Messina. Saranno percepiti come un peso per la società o saranno pienamente inseriti all’interno della società? Questa partita si gioca già da oggi, se si attivano dei percorsi che funzionano».
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