“Non affronto un israeliano”. Con questa motivazione il judoka algerino Fethi Nourine ha annunciato il suo ritiro dalle Olimpiadi di Tokyo 2020 dopo il sorteggio dei tabelloni della categoria dei 73 chilogrammi. Al secondo turno, infatti, avrebbe dovuto affrontare quasi sicuramente l’israeliano Tohar Butbul, e per questo si è ritirato.
A confermare la notizia è stato poi il tecnico di Nourine, Amar Ben Yekhlef: “Non abbiamo avuto fortuna con il sorteggio – ha detto –. Il nostro judoka Fethi Nourine avrebbe dovuto affrontare un avversario israeliano, e questo è il motivo del suo forfait. Abbiamo preso la decisione giusta”.
Scoppia così il primo caso politico-diplomatico dei Giochi di Tokyo 2020, che già non sembrano essere nati sotto una buona stella. Ma, sfogliando i libri di storia, questa non è la prima volta che la politica contamina le Olimpiadi. Nonostante la manifestazione a cinque cerchi, per statuto, sia apolitica.
Il primo caso risale al 1936, alle Olimpiadi naziste di Berlino. Il Comitato olimpico internazionale, il Cio, vietò specificatamente al regime di Hitler di propagandare le teorie sulla superiorità della razza ariana. Inoltre, fu imposto alla Governo nazista di far gareggiare nella squadra tedesca anche gli atleti ebrei che si erano qualificati.
Proprio come Helene Mayer, che rappresentò la Germania nella scherma femminile. Ma i Giochi del ’36 passarono alla storia anche per un altro motivo. E cioè l’exploit del velocista afroamericano Jesse Owens, che vinse quattro ori nei 100 e 200 metri piani, nei 4×100 metri e nel salto in lungo. Ma l’allora Kanzler tedesco, Adolf Hitler, si rifiutò di consegnargli di persona le medaglie.
Ci sono poi i Giochi di Londra del 1948. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le sconfitte Germania e Giappone vennero escluse dalle Olimpiadi; mentre l’Unione Sovietica fu invitata ma rifiutò di inviare le proprie delegazioni di atleti.
Si continua con Melbourne, in Australia, nel 1956, anno della crisi del canale di Suez. Egitto, Libano e Iraq boicottarono infatti i Giochi per protestare contro l’invasione di Israele della penisola del Sinai. Gli atleti di Spagna, Svizzera e Olanda si ritirarono invece nel corso della manifestazione dopo che, poche settimane prima, l’Urss aveva invaso l’Ungheria.
Le Olimpiadi del 1968 a Città del Messico furono ‘inaugurate’ invece dal massacro di Tlatelolco del 2 ottobre. L’esercito messicano uccise 200 manifestanti e ne ferì mille durante le proteste contro l’utilizzo dei fondi governativi per finanziare i Giochi e non per le riforme sociali.
Ma il ’68 fu anche l’anno della celebre protesta dei velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos. Dopo la finale dei 200 metri, salirono sul podio a piedi scalzi, chinarono la testa e sollevarono al cielo un pugno coperto da un guanto nero per protestare contro il mancato rispetto dei diritti umani per gli afroamericani negli Usa.
Nel 1972, a Monaco di Baviera, in Germania, ci fu un altro massacro. L’inizio delle Olimpiadi fu infatti segnato dall’attentato terroristico palestinese contro la squadra israeliana del 5 settembre. Otto affiliati di ‘Settembre Nero’ riuscirono a entrare nel Villaggio Olimpico e a uccidere due atleti del Team Israele, prendendone altri nove come ostaggi. Non avendo ottenuto in cambio il rilascio di 200 prigionieri, i palestinesi reagirono uccidendoli tutti.
I Giochi della XXI Olimpiade, disputati a Montréal, in Canada, nel 1976 furono infine caratterizzati dal boicottaggio di molti Paesi africani. Per la prima volta (e per le due edizioni successive dei Giochi) 27 nazioni del continente africano si rifiutarono infatti di partecipare come segnale contro l’apartheid.
Il fattore scatenante fu la mancata squalificata della Nuova Zelanda: la Nazionale di rugby, infatti, aveva giocato contro squadre composte solo da bianchi durante un tour in Sudafrica, che però dal 1964 non poteva partecipare alle Olimpiadi proprio per le politiche di apartheid in atto nel Paese. Il Cio di difese dicendo che il rugby non era sport olimpico dagli anni ’20. Fu infine ripristinato ai XXXI Giochi Rio de Janeiro, nel 2016.
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