Cinquanta vite spezzate. La maggior parte in Paesi in cui non vi sono eventi bellici in corso. Sono questi i dati che spiccano maggiormente nel rapporto annuale sulla libertà di informazione e di stampa pubblicato da Reporter Senza Frontiere, l’organizzazione non governativa internazionale fondata nel 1985 che lavora al fianco delle Nazioni Unite per promuovere in tutto il mondo la libertà di stampa. Una libertà che in troppi Paesi sembra ancora pura utopia.
Le cifre, purtroppo, restano simili a quelle già registrate lo scorso anno. Nel 2019, infatti, furono i 53 i reporter uccisi per cause correlate al loro lavoro di indagine. Nell’ultimo decennio, poi, sono state 937 le vittime tra chi svolge questo mestiere. Numeri che lanciano l’allarme sullo stato della libertà di informazione nel mondo.
È il Messico, con otto morti, il Paese che ha registrato il maggior numero di vittime, seguito da Afghanistan (6) e Iraq (5). Fa ancor più riflettere, ampliando l’attenzione al resto del mondo, che 34 delle 50 vittime siano state uccise in Paesi nel cui territorio non sono in corso guerre.
La percentuale di giornalisti uccisi nelle zone di guerra, come la Siria e lo Yemen, o Paesi coinvolti in conflitti di “bassa e media intensità” come Afghanistan e Iraq, continua a diminuire. Nel 2016 era il 58%, nel 2020 si attesta al 32%.
Ben 41 dei 50 giornalisti uccisi nel 2020 è stato deliberatamente preso di mira ed eliminato. Il rapporto di RSF non nasconde dettagli anche cruenti sulla fine di alcuni professionisti, assassinati in modo “particolarmente barbaro”. L’organizzazione ricorda in tal senso giornalisti come Julio Valdivia Rodriguez, reporter del quotidiano messicano El Mundo de Veracruz, decapitato dalla malavita locale, o il suo collega Victor Fernando Alvarez Chavez, direttore di un sito di notizie locale, fatto a pezzi ad Acapulco.
Altri nove cronisti sono morti invece per altre cause. RSF cita, ad esempio, Mohamed Monir in Egitto e Saleh Al-Shehi in Arabia Saudita, entrambi deceduti dopo l’incarcerazione a causa del Covid-19. C’è anche chi, come Ruhollah Zam, è stato condannato dal proprio Paese, l’Iran, alla pena di morte per la sua ostilità al regime degli Ayatollah: una sentenza compiuta lo scorso 12 dicembre, con un metodo arcaico e barbaro come l’impiccagione.
Quello che emerge dal rapporto è che nessuno Stato sta cercando davvero di dire addio…
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