A quasi due mesi dall’offensiva lasciata dai ribelli birmani contro la giunta militare al potere in Myanmar, arriva la notizia di un cessate il fuoco temporaneo. Lo afferma la Cina che avrebbe mediato e ospitato i negoziati tra i gruppi d’opposizione e le forze armate agli ordini del regime. “Abbiamo lavorato senza sosta per fermare la guerra e promuovere i colloqui tra le parti in conflitto in Myanmar, insistendo per ridurre le tensioni e favorire la distensione della situazione”, ha spiegato il ministero degli Esteri di Pechino. Appena due giorni fa i ribelli, riuniti nell’Alleanza delle tre confraternite (Tba), hanno ribadito l’intenzione di rovesciare “la dittatura” senza menzionare una tregua o colloqui di pace.
Difficile al momento prevede gli sviluppi. Di certo in molte zone del Paese il conflitto va avanti, tra scontri armati, raid aerei e bombardamenti di artiglieria. Secondo gli ultimi dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), le ostilità finora hanno causato circa 400 morti e più di 500 feriti oltre a 660mila sfollati interni, in un Paese che ne contava già più di due milioni a causa del colpo di Stato che nel febbraio del 2021 ha portato l’esercito al potere e deposto il governo democraticamente eletto guidato dalla leader birmana e premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, ora agli arresti domiciliari.
La situazione umanitaria resta critica, fa sapere l’Onu. Nelle zone colpite dal conflitto scarseggiano cibo e altri beni essenziali mentre aumentano i casi di arresti arbitrari, sfruttamento e reclutamento forzato.
Lo scorso 26 ottobre le milizie ribelli birmane hanno lanciato nel nord del Paese l’“Operazione 1027”, attaccando simultaneamente diverse postazioni dell’esercito e di altre forze di sicurezza nello Stato di Shan. Gli attacchi si sono poi estesi alle regioni nord occidentali di Mandalay e Sagiang. In novembre altre operazioni nello Stato di Kayah.
In Myanmar, dove l’etnia birmana rappresenta circa due terzi dei 54 milioni di abitanti, sono presenti consistenti minoranze etniche armate, che da decenni si oppongono ai militari e chiedono democrazia e autonomia.
L’offensiva, portata avanti su più fronti, si è rivelata molto efficace sul piano militare e ha messo in seria difficoltà la giunta. Tanto da far predire ad alcuni analisti la caduta del regime militare. Senza precedenti il livello di coordinamento come l’uso di droni commerciali per colpire infrastrutture e altri obiettivi. Gli scontri si sono intensificati alle frontiere con la Cina e l’India, due Paesi non ostili al governo militare di Naypyidaw. Non a caso entrambi, nel dicembre del 2022, si sono astenuti quando il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la prima e unica risoluzione sulla crisi birmana, che invoca la fine delle violenze e chiede alla giunta di liberare tutti i prigionieri politici.
Le ostilità hanno spinto migliaia di persone oltre confine. Solo nelle ultime settimane circa 5mila profughi dallo Stato di Chin hanno raggiunto il Mizoram in India. Era già accaduto con il golpe di due anni fa. I gruppi etnici dei due Stati, Mozo e Chin, infatti hanno stretti legami. Un flusso di persone che impensierisce non poco il governo di New Delhi anche alla luce degli attacchi che si verificano al confine.
L’instabilità piace ancora alla Cina, che fornisce armi al Myanmar e ha interessi economici nel territorio birmano. Per questo Pechino ha richiamato all’ordine il Paese affinché garantisca l’ordine lungo la frontiera settentrionale. “Dallo scoppio delle ostilità, alcune persone provenienti dal Myanmar hanno attraversato il confine con la Cina per cercare rifugio. Per senso di umanità e amicizia, la Cina si è presa cura di queste persone, facendo ogni sforzo per curare i malati e i feriti”, ha detto a metà novembre il ministero degli Esteri, invitando “le parti in guerra nel nord del Myanmar a cessare le ostilità il prima possibile, in modo che queste persone possano tornare rapidamente alle loro case”. Anche l’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico, ha espresso grande preoccupazione per l’acuirsi del conflitto e lo sfollamento dei civili.
La recrudescenza dell’offensiva delle forze ribelli non è il solo fronte di crisi che attraversa il Paese. Solo pochi giorni fa l’Ufficio dell’Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine ha diffuso un rapporto che certifica il sorpasso del Myanmar nella produzione mondiale di oppio, da cui deriva l’eroina. Un primato detenuto da anni dall’Afganistan, fino all’arrivo al potere dei talebani, che nell’aprile del 2022 hanno messo al bando le coltivazioni di papavero causando un calo della produzione di oppio del 95%, sceso a circa 330 tonnellate, e una riduzione dei terreni impiegati a meno di 11mila ettari, contro i 233mila del 2022.
“Il caos portato nell’economia, nella sicurezza e del governo dal colpo di Stato del febbraio 2021 ha spinto i contadini nelle aree remote verso l’oppio per guadagnarsi da vivere”, ha spiegato Jeremy Douglas, rappresentante regionale dell’Unodc. Secondo il report, nel 2023 nel Paese sono state prodotte circa 1.080 tonnellate di oppio, in crescita del 36% rispetto alle 790 del 2022, la quantità più alta dal 2001, mentre la superficie coltivata è aumentata del 18% superando i 47mila ettari. L’Unodc stima che “l’economia degli oppioidi” del Myanmar frutti tra 1 e 2,4 miliardi di dollari, ovvero tra l’1,7% al 4,1% del Pil del Paese.
Il Myanmar fa parte del cosiddetto “triangolo d’oro”, la regione di confine tra l’ex Birmania, il Laos e la Thailandia, da tempo focolaio di produzione e traffico di droga, in particolare di metanfetamine e oppio.
A contribuire al sorpasso l’instabilità e l’insicurezza degli ultimi anni, spiega l’Unoc. Dopo il colpo di Stato del 2021 la produzione di oppio è esplosa, soprattutto nelle aree che risentono maggiormente delle conseguenze della guerra civile, come gli Stati di Shan e Kachin, nel nord est.
Tra i fattori alla base dell’impennata anche l’estrema povertà in cui versa la popolazione, acuita dall’alta inflazione. Come spiega il report, l‘economia del Myanmar è stata gravemente colpita dal conflitto interno. Da qui il dilagare della coltivazione di oppio. “La limitata disponibilità di opportunità economiche legali”, scrivono gli esperti dell’Onu, “sembra aver giocato un ruolo significativo nella decisione degli agricoltori, alla fine del 2022, di aumentare la coltivazione di papavero”.
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