Kamala Harris è stata ufficialmente designata candidata del Partito Democratico per le elezioni presidenziali di novembre
La vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, è stata ufficialmente designata come candidata del Partito Democratico per le elezioni presidenziali di novembre. L’annuncio è stato fatto venerdì dal presidente del comitato elettorale del partito, Jaime Harrison.
La nomina di Harris era ampiamente attesa, dato che era l’unica candidata e aveva già comunicato di aver ricevuto l’appoggio verbale di un numero sufficiente di delegati per assicurarsi la candidatura. La procedura di voto elettronico per la conferma da parte del Partito Democratico è iniziata giovedì scorso, e la nomina formale avverrà durante la convention del partito, che si terrà a Chicago dal 19 al 22 agosto. Tuttavia, questa sarà solo una formalità, poiché la scelta è già stata fatta.
La votazione elettronica è stata necessaria per accelerare il processo di nomina. Questo piano risale a maggio, prima che l’attuale presidente Joe Biden decidesse di ritirarsi dalla corsa a causa dei dubbi sulla sua capacità di governare per un secondo mandato, dato che ha 81 anni.
La decisione di anticipare il voto era legata a delle scadenze per la presentazione dei candidati in Ohio e in altri stati. Secondo i dirigenti del partito, aspettare il voto in presenza a fine agosto avrebbe comportato il rischio di non rispettare queste scadenze e di essere esclusi dalle schede elettorali in vari stati.
Dopo il ritiro di Biden, la necessità di nominare un nuovo candidato è diventata urgente per il Partito Democratico, sia per motivi elettorali sia per le minacce di alcuni Repubblicani, che hanno già accennato a possibili ricorsi contro presunte irregolarità nel processo di sostituzione.
Nonostante la sua campagna elettorale sia partita con entusiasmo alcune settimane fa, Harris ha ora meno di 100 giorni per far conoscere il suo messaggio e definire chiaramente la sua posizione su diverse questioni importanti, su cui finora ha avuto poca visibilità. Essendo stata vicepresidente, il suo ruolo è stato per lo più subordinato a quello di Biden, e non è ancora chiaro quali siano le sue posizioni su temi come l’economia o la politica estera. Su altri argomenti, come l’aborto e i diritti riproduttivi, Harris ha già espresso posizioni specifiche, mentre per altri aspetti possiamo trarre qualche indicazione dal suo passato come procuratrice, senatrice e candidata alle primarie Democratiche del 2019.
Inoltre, Harris deve ancora scegliere il candidato alla vicepresidenza. Questa decisione, già oggetto di numerose speculazioni, potrebbe giocare un ruolo cruciale nelle elezioni contro Donald Trump, soprattutto ora che il candidato vicepresidente di Trump, J.D. Vance, sta affrontando alcuni primi segnali di impopolarità.
Harris ha sempre sostenuto con forza il diritto all’aborto, dichiarandosi favorevole alla sua reintroduzione a livello federale. Nel marzo di quest’anno, è diventata la prima presidente o vicepresidente in carica a visitare ufficialmente una clinica dove si praticano aborti. La questione dell’aborto ha già contribuito alle vittorie dei Democratici nelle ultime elezioni di metà mandato del 2022 ed è considerata uno dei punti di forza di Harris nella probabile competizione elettorale contro Trump.
Al contrario, l’immigrazione rappresenta un punto debole per Harris. All’inizio del suo mandato come vicepresidente, Biden le affidò un dossier complicato e praticamente irrisolvibile: affrontare le cause profonde della crisi migratoria al confine meridionale degli Stati Uniti. Questo dossier, spesso confuso con un più ampio “dossier sull’immigrazione”, era in realtà molto più complesso e spinoso. Harris è stata criticata per la sua gestione, alternando una posizione estremamente dura (durante una visita in America Latina disse: «Non venite. Vi ricacceremo indietro») a una inefficace (fu molto criticata per aver lasciato trascorrere mesi prima di fare la sua prima visita al confine).
In realtà, Harris non ha mai gestito direttamente la questione dell’immigrazione per conto della Casa Bianca; il suo incarico era limitato alle «cause profonde» del fenomeno, e non era lei la responsabile delle questioni migratorie. Nonostante ciò, i Repubblicani continuano a definirla “Border Czar”, cioè “la zar del confine”. Nel gergo politico statunitense, “zar” si riferisce informalmente ai funzionari responsabili di un determinato settore. L’obiettivo è quello di presentare Harris come la principale responsabile della crisi migratoria che gli Stati Uniti stanno affrontando, una questione che, secondo i sondaggi, è diventata profondamente impopolare tra gli elettori.
Prima di diventare vicepresidente, Harris si è distinta per il suo attivismo climatico: durante il suo periodo come procuratrice di San Francisco (2004-2011), ha creato un team dedicato alla giustizia climatica; come procuratrice generale della California (2011-2017), ha avviato procedure penali contro alcune società petrolifere ritenute responsabili di eccessivo inquinamento. Da senatrice, ha sostenuto il Green New Deal, la grande proposta di riforma climatica promossa dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez. Nel 2019, quando si candidò alle primarie del Partito Democratico, dichiarò che, se eletta presidente, avrebbe vietato il fracking, una tecnica di fratturazione idraulica per estrarre combustibili fossili dal sottosuolo.
Da vicepresidente, Kamala Harris ha seguito le direttive della presidenza Biden, che ha adottato misure estremamente ambiziose sul tema, come l’approvazione dell’Inflation Reduction Act, una legge che ha stanziato enormi risorse per la transizione energetica. Tuttavia, su altre questioni, ha mantenuto posizioni più moderate, come nel caso del fracking e dell’estrazione di idrocarburi sul suolo statunitense, che non sono state né vietate né limitate.
L’economia è forse il settore in cui Harris ha meno esperienza e proposte meno definite. Questo potrebbe essere problematico, poiché la sua campagna dovrà affrontare la complicata eredità economica di Biden, caratterizzata da successi e critiche. Durante il mandato di Biden, l’economia statunitense è cresciuta più di quella della maggior parte dei paesi sviluppati e la disoccupazione ha raggiunto minimi storici. Tuttavia, il persistere dell’inflazione ha reso la sua presidenza impopolare. La cosiddetta “Bidenomics”, termine spesso usato da Biden per descrivere il suo approccio economico, è apprezzata da analisti ed economisti, ma generalmente poco gradita dall’elettorato.
Harris dovrà trovare un modo per distanziarsi almeno in parte dalle politiche economiche di Biden e proporre misure che trasmettano agli elettori la sensazione che stia affrontando seriamente l’aumento dei prezzi. Tuttavia, non potrà sconfessare completamente l’operato dell’amministrazione di cui è parte integrante.
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