Per quanto il ministro degli Interni britannico, Priti Patel, abbia firmato ieri l’estradizione negli Stati Uniti di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, il caso non è ancora chiuso. Il timbro dell’Home Office sigilla la sentenza emessa a marzo dall’Alta Corte a chiudere il percorso che ha visto passare il caso da un grado all’altro di giudizio fino al tribunale supremo che ha respinto l’ultimo appello. Le sorti del 51enne, accusato di aver sottratto e diffuso documenti Usa ‘top secret’ sulla guerra in Iraq e Afghanistan, sono rimesse all’esito degli ultimi appelli ammissibili. Entro 14 giorni i legali contesteranno parti del provvedimento ministeriale, di nuovo, all’Alta Corte. E l’ultima spiaggia potrebbe essere un ricorso alla Corte Europea per i diritti umani.
È da più di dieci anni che Washington dà la caccia a Julian Assange. Il caso è tanto complesso quanto controverso. Gli Usa chiedono che l’ex giornalista australiano, detenuto da tre anni nel carcere londinese di massima sicurezza, Belmarsh, venga consegnato alla giustizia statunitense per spionaggio. Accusa che potrebbe tradursi in una condanna a 175 anni di reclusione. La difesa ritiene che l’uomo sia vittima di una ritorsione politica che, nel 2017, quando viveva nell’ambasciata londinese dell’Ecuador protetto dal governo di Quito, lo avrebbe esposto a un tentativo di avvelenamento. Le sue condizioni psicofisiche, argomentano i legali, non sono inoltre compatibili con il duro regime che si prospetta nelle galere del Colorado. “È a rischio suicidio”, aveva sentenziato il giudice britannico Vanessa Baraitser, ma “ha interesse a fuggire”.
L’accusa è riuscita ad arrivare all’ordine di estradizione garantendo, nero su bianco, per il detenuto Assange un trattamento adeguato alle sue condizioni. Comprese cure e terapie psicologiche. Assicurazioni che sono bastate alla Corte Suprema per chiudere il ciclo di udienze e lasciare al ministro Patel l’ultima parola. Il via libera dell’Home Office è arrivato con qualche giorno di ritardo rispetto alla scadenza a confermare, come previsto, che il detenuto non corre negli Stati Uniti alcun rischio di abusi. I tribunali britannici, ha commentato un portavoce, non hanno rilevato elementi a dimostrare che verrebbe trattato in modo “oppressivo e ingiusto”.
Stella Morris, moglie di Assange nonché madre dei suoi due figli, non si arrende. “Julian non ha fatto nulla di sbagliato”, ha commentato, “è un giornalista punito solo per aver fatto il suo dovere. È un giorno nero per la democrazia”. L’uomo, tuonano le associazioni come Amnesty e Human Rights Watch è “perseguitato” per avere pubblicato le prove di crimini di guerra, torture e corruzione che “imbarazzano gli Usa”.
I margini per un nuovo appello all’Alta Corte britannica sono strettissimi. Nel caso di un rigetto non resterebbe che l’opzione di un ricorso alla Corte Europea per i diritti umani (Cedu). Lo stesso tribunale del Consiglio d’Europa che martedì scorso ha bloccato in extremis la partenza del primo volo di migranti irregolari in Ruanda. L’altolà sta portando l’esecutivo a valutare degli aggiustamenti normativi che facciano prevalere la legge nazionale sulla Convenzione Europea per i diritti dell’uomo. Terreno delicato su cui Jennifer Robinson, uno degli avvocati di Assange, pare però sapersi muovere con destrezza. La donna, che ha già trascinato con successo Johnson dinanzi alla Cedu, ha promesso: “Non lasceremo intentata alcuna strada”.
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