La formula “due Stati, due popoli” nelle ultime settimane è tornata alla ribalta dopo l’assalto messo a segno il 7 ottobre da Hamas contro Israele, riaccendendo un conflitto mai sopito che ora rischia di infiammare tutto il Medio Oriente. Dalle Nazioni Unite agli Stati Uniti, dall’Unione europea ai politici di casa nostra, in testa la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, tutti la invocano come unica soluzione a un conflitto che va avanti da oltre 70 anni: due Stati indipendenti, uno palestinese e uno israeliano, che vivono uno accanto all’altro pacificamente.
Di “due Stati per due popoli” si inizia a parlare sin dall’inizio del ventesimo secolo ma è nel 1993, con gli accordi di pace di Oslo, che la soluzione viene messa nero su bianco alimentando speranze per una pace duratura. Con gli anni tuttavia le aspettative riposte nella storica stretta di mano tra il premier israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat sono state frustrate e ormai in pochi sembrano credere che il mondo assisterà mai alla creazione di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano.
Gli ostacoli maggiori che finora ne hanno impedito la nascita sono tre: la questione dei confini, la divisione di Gerusalemme e il ritorno dei palestinesi espulsi nel 1948. Man mano che la soluzione dei due Stati ha perso quotazioni, c’è chi ha cominciato a guardare a un’ipotesi alternativa, quella di uno Stato bi-nazionale, nel quale palestinesi e israeliani convivono pacificamente. Una prospettiva che incontra forti resistenze da entrambe le parte, e in specie a Tel Aviv, e lascia inevasa la questione su come garantire la sicurezza alle due comunità sullo stesso territorio.
Gli accordi di pace di Oslo hanno compiuto trent’anni lo scorso 13 settembre. Sul prato della Casa Bianca, con la benedizione del presidente Usa Bill Clinton, per la prima volta i due leader si stringono la mano in pubblico e si riconoscono come legittimi interlocutori. Un’intesa raggiunta dopo mesi di negoziati segreti condotti nella capitale norvegese tra l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, e lo Stato ebraico.
Tale è l’aspettativa risposta nell’intesa che nel 1994 il ministro degli Esteri israeliano, Shimon Peres, Rabin e Arafat ricevono il premio Nobel per la pace. L’accordo tuttavia è destinato a rimanere perlopiù sulla carta, a cominciare dalla soluzione dei due Stati.
Per la prima volta l’Olp riconosce il diritto di Israele a esistere e rinuncia formalmente alla lotta armata per la creazione di uno Stato palestinese. Gli israeliani da parte loro riconoscono nell’organizzazione guidata da Arafat l’interlocutore ufficiale che parla a nome del popolo palestinese.
Le due parti concordano sulla formazione dell’Autorità nazionale palestinese, l’Anp, che avrebbe governato un territorio che includeva la Striscia di Gaza e parte della Cisgiordania, con capitale Gerusalemme Est. Israele dal canto suo si impegna nel corso dei cinque anni successivi a ritirarsi sai territori occupati militarmente nella guerra dei sei giorni del 1967.
Nel 1995 in base a un’altra serie di accordi, Oslo II, la West Bank viene ripartita in tre zone: una sotto il controllo dei palestinesi, un’altra di competenza di Israele e la terza gestita congiuntamente.
L’entusiasmo attorno agli accordi di Oslo comincia in breve a scemare. Quando nel novembre del 1995 Rabin viene ucciso a Tel Aviv da un fanatico religioso, un colono ebreo, le speranze di pace sembrano allontanarsi ancora di più.
Il peccato originale degli accordi di Oslo è l’aver messo da parte i dossier più controversi, che ancora oggi si frappongono alla creazione di uno Stato palestinese, a cominciare dalla questione dei confini.
Citando legami storici e biblici, e forte del sostegno degli Stati Uniti, Israele di fatto non ha mai fermato la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, a dispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite che ne attestano l’illegalità in base al diritto internazionale. Secondo l’Onu, rappresentano “il maggiore ostacolo alla visione di due Stati che vivono uno a fianco all’altro in pace e in sicurezza”. Malgrado le condanne delle Nazioni Unite e di un ampia fetta della comunità internazionale, poco è stato fatto per fermare in concreto l’espansione degli insediamenti. Dal 1967 a oggi il numero dei coloni ebrei nei territori occupati ha superato quota 700mila, distribuiti in centinaia di insediamenti.
Un’altra questione irrisolta è lo status giuridico di Gerusalemme, che entrambi le parti rivendicavano come propria capitale alla luce del valore storico e religioso della città vecchia, che custodisce numerosi luoghi sacri per le tre confessioni monoteiste (ebraismo, islam e cristianesimo), a cominciare dalla collina – nota ai musulmani come Spianata delle mosche e agli ebrei Monte del Tempio – dove sorge la moschea di al Aqsa, teatro da anni non a caso di scontri e rivendicazioni.
Il governo israeliano considera Gerusalemme la “capitale indivisibile” dello Stato ebraico malgrado la parte Est della città sia considerata dalla comunità internazionale un territorio occupato.
Resta aperta ancora oggi la questione del diritto al ritorno dei palestinesi espulsi dopo la creazione dello stato di Israele e la guerra del 1948, in quella che è nota come “Nakba”, la catastrofe. Circa 750mila persone a cui le Nazioni unite hanno riconosciuto lo status di rifugiato. Oggi sono poco meno di 6 milioni i rifugiati palestinesi assistiti dall’Unrwa. Circa un terzo, oltre 1,5 milioni di persone, vive in 58 campi profughi tra Giordania, Libano, Siria, Striscia di Gaza e Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est.
Ufficialmente Israele approva la soluzione dei due Stati. Nei fatti i governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni hanno fatto ben poco per realizzarla, in testa quelli guidati da Benjamin Netanyahu, l’attuale primo ministro. Sin dal 1996, quando viene eletto a capo di una coalizione di destra nazionalista e religiosa, il premier non ha mai nascosto l’avversione nei confronti degli accordi di Oslo, definiti un errore.
Oggi un numero crescente di esponenti politici in Israele rigetta l’idea di uno Stato palestinese. A cominciare dai partiti che sostengono l’attuale governo, una colazione composta da forze di ultra destra e estremisti religiosi. Appena lo scorso luglio la tv pubblica israeliana Ikan ha riportato le parole pronunciate da Netanyahu nel corso di un incontro a porte chiuse con alcuni membri della Knesset, il Parlamento. Le speranze palestinesi di creare uno Stato sovrano “vanno eliminate”, avrebbe detto il primo ministro.
Dall’altra metà di campo, le divisioni tra i palestinesi rappresentano un macigno lungo la strada che conduce alla nascita di uno Stato indipendente. Da un lato l’Anp in Cisgiordania, che sostiene la soluzione dei due Stati, dall’altro Hamas, che controlla Gaza e sin dalla sua fondazione, nel 1987, ha fatto della distruzione di Israele la propria ragione sociale. Del resto il movimento palestinese nel 2017 ha riformato lo statuto prevedendo uno Stato palestinese entro i confini del 1967.
Negli anni le speranze risposte nella soluzione dei due Stati si sono progressivamente affievolite e da tempo l’opinione pubblica, sia in Israele che nelle zone controllate dai palestinesi, non crede più sia a portata di anno.
Secondo un sondaggio condotto lo scorso aprile, dunque prima degli attacchi del 7 ottobre, condotto da Pew Research Center in Israele, solo il 35% degli intervistati crede nella coesistenza pacifica tra Israele e Palestina. Un dato in calo di 15 punti a dieci anni e il più basso mai registrato. Il disincanto è evidente in particolare tra gli arabi israeliani, la cui fiducia ha subìto un calo del 33% rispetto al 2013, contro il 14% degli israeliani ebrei.
Anche sul fronte palestinese, resta alto lo scetticismo nei confronti della soluzione “due Stati, due popoli”. Secondo un sondaggio condotto a settembre dal Palestinian Center for Policy and Survey Research, quasi il 70% degli intervistati si oppone, indicando l’espansione degli insediamenti come motivo motivo principale.
La mancata attuazione degli accordi di Oslo e l’uso della coercizione da parte di Israele nei territori occupati hanno eroso la fiducia dei palestinesi nella politica e nella diplomazia come strumenti per la nascita di uno Stato indipendente. I civili palestinesi che si dicono favorevoli alla lotta armata sono il 53%, in aumento del 12% rispetto al 2022.
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