Dall’annuale bilancio di Reporter Senza Frontiere (clicca qui per scaricarlo) emerge un allarme nell’allarme. Mai prima d’ora, infatti, i cronisti detenuti nel mondo erano così tanti: 488, il 20% in più rispetto allo scorso anno. E mai prima d’ora si era registrato un numero così alto di giornaliste recluse: ben 60, il 12,3% del totale.
Una cifra praticamente raddoppiata in appena quattro anni. Basti pensare che, al 1° dicembre 2017, RSF registrava “soltanto” il 6,59% di reporter donne private della loro libertà. L’organizzazione non governativa parigina evidenzia come la repressione nei confronti delle giornaliste sia tipica di alcune aree geografiche specifiche.
Il primato negativo spetta alla Cina, dove si registra sia il numero più alto di cronisti detenuti sia quello di donne coinvolte. Queste ultime sono infatti 19, di cui tre a Hong Kong e 16 nella Cina continentale. Fra loro ci sono ad esempio Claudia Mo, attiva anche politicamente nella promozione della libertà di stampa sull’ex isola di Formosa.
C’è poi la giornalista Sofia Huang Xueqin, nota per essere tra le figure di riferimento del movimento #MeToo in Cina, attualmente reclusa in isolamento con l’accusa di “sovversione del potere dello Stato”. E c’è anche il caso di Gulmira Imin, direttrice del sito uiguro Salkin, condannata al carcere a vita perché accusata di “separatismo” e “divulgazione di segreti di Stato”.
Uno dei casi più particolari è quello della Bielorussia, dove il numero di giornaliste detenute (17) supera quello dei colleghi uomini (15). Sono donne anche i primi due professionisti dell’informazione ad aver riportato una condanna penale dal regime bielorusso.
Si tratta di Daria Tchoultsova, della rete indipendente polacca Belsat, e Katsiarina Andreyeva. La condanna per entrambe è di due anni di reclusione in una colonia penale perché accusate di “organizzazione e preparazione di azioni che violano gravemente l’ordine pubblico”. La loro “colpa”? Aver ripreso in diretta una manifestazione non autorizzata.
In Myanmar, l’ex Birmania, ci sono attualmente nove giornaliste in stato di detenzione. Fra loro c’è la reporter freelance Ma Thuzar, una dei primi a dare ampia copertura alle insurrezioni popolari dopo il golpe del 1° febbraio scorso. Da inizio settembre è reclusa in gran segreto nella prigione di Insein, un sobborgo di Rangoun.
Tragica è invece la situazione della vietnamita Pham Doan Trang, che nel 2019 ha vinto il premio per la libertà di stampa di RSF. Il 14 dicembre è stata condannata a nove anni per propaganda contro lo Stato dopo oltre un anno di reclusione preventiva in cui ha dovuto subire diverse atrocità.
Nell’ultima udienza, infatti, è apparsa dimagrita e in condizioni fisiche peggiorate a seguito dei pestaggi ricevuti da alcuni poliziotti nell’estate del 2018. Pham Doan Trang soffre infatti di serie problematiche alla schiena e alle gambe che le impediscono di camminare. Di recente, un’ecografia ha infine evidenziato un tumore all’addome.
Da ultimo, in Iran sono tre le giornaliste imprigionate. Tra queste troviamo Narges Mohammadi, tornata in cella all’inizio di novembre dopo appena dodici mesi di libertà al termine di una precedente condanna a otto anni di reclusione.
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